Nell’aula del tribunale di Metz, Cornelius, nella sua imponenza, s’ergeva con prosopopea di fronte al suo avversario, Nicola Savini, domenicano, inquisitore della fede, che lo guardava accigliato e nemico.
Il suo avversario nella causa, Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim, non era uomo da poco. Famoso alchimista, mago, teologo, medico, giurista e filosofo, Cornelius era un funzionario importante nella città di Metz, dove era stipendiato come oratore e consigliere.
In una città provinciale, in cui le agitazioni del movimento della riforma scaldavano gli animi, il processo assumeva un’importanza superiore a quella effettiva. Che cos’era mai un banale e consueto processo a una strega da mettere in campo le maggiori forze contrapposte? Cornelius, nella sua arringa propedeutica, disputò innanzitutto su questioni di procedura, sollevando delle eccezioni contro l’Inquisitore stesso. Poi riassunse la storia che portava in tribunale una povera donna di Woippy, un villaggio nei dintorni di Metz, accusata di malefici e stregoneria. Così parlò Cornelius: “All’inizio di questa storia ignobile, una turba di contadini ubriachi di vino e di foia, invase la povera abitazione della donna qui accusata nel mezzo della notte, e senza alcun diritto né licenza legale, la gettano in prigione. Nonostante la patente illegalità, l’autorità feudale del luogo, il capitolo della cattedrale, la consegna a l’ufficiale della corte episcopale e non, come dovuto, al tribunale ordinario. Venuto a conoscere l’ingiustizia e l’infamia e, mea sponte, assumo la difesa della donna, così come di mia funzione e diritto comunale. A mia insaputa, l’ufficiale Jean Leonard, per pochi fiorini, apre le porte del carcere dov’è rinchiusa la donna ai suoi accusatori, che la percuotono, la maltrattano e la violentano. Le mie proteste non vengono prese in considerazione e all’arrivo a Woippy dell’ufficiale incaricato dal tribunale di Metz, vengono fabbricate, attraverso un libello menzognero, accuse infondate. Mi rifiuto di esplicare il mio incarico in un “loco suspecto” in cui la malevolenza e la malafede impedirebbero un giusto processo e quando invito il marito della donna a porgere eccezione e ricorso, ecco che questi viene ucciso. Su vostro parere, monaco inquisitore, che vi siete riferito al libello che voi stesso avete scritto per sostenere l’accusa, questa donna – e Cornelius indicò un povero pacco di panni sporchi che ben poco aveva ormai dell’essere umano – è stata sottoposta all’atrocità della tortura, senza la presenza del giudice e poi ricacciata in una cella a soffrire freddo, fame e sete. Con quale argomento avete motivato la vostra empietà? Quali prove esistono che questa donna sia veramente una strega? Voi dite che sua madre è stata bruciata sul rogo come strega. Io vi dico che questo ulteriore delitto commesso contro la madre non può provare niente contro la figlia. E dove siete andato a pescare, nella vostra peripatetica teologia, che avendo le streghe l’uso di consacrare i loro figli al diavolo, dato che esse naturalmente con il diavolo copulano, questi ereditano tutta la malizia del padre loro? Da quali sacri testi avete indotto che il diavolo possa generare? Voi inquisitore, che misconoscete la virtù del battesimo e delle sue formule, voi stesso siete chiaramente un eretico .” Cornelius sapeva bene che senza un attacco deciso e diretto, senza timore del potere dell’Inquisizione, non soltanto non avrebbe salvato la donna, ma avrebbe messo a rischio la sua stessa vita. L’Inquisitore, a corto di argomenti, ritorse l’accusa contro Cornelius: “Proprio tu parli di eresia? Tu sei un eretico e saprò ben provarlo.” Imperterrito, Cornelius contestò all’Inquisitore il diritto di giurisdizione e quello di riconoscere il “delitto di stregoneria”. Continuò affermando che riguardo a quello di eresia, la presunzione data non può bastare a risolvere il processo a suo favore. L’Inquisitore, che stentava a nascondere la sua animosità contro Cornelius, sbottò: “Con quale presunzione volete negare le diaboliche malizie e l’esistenza stessa del nemico? Sapete bene quali infausti avvenimenti sono accaduti a colo che hanno voluto negare questa affermazione di dotti e santi dottori della chiesa. Volete allora anche negare le gravità della nera arte magica, di cui forse voi stesso siete intriso”. Cornelius, con gelida calma, ribatté: “Chi afferma di praticarla con verità sogna soltanto incubi da sveglio, ma io mi sento fortemente inclinato a credere che i pretesi maghi non altro intento conferiscano, che d’ingannare gli altri e forse se stessi ancora. La magia che credete non è altro che chimera… patente vanità, essendo dunque che a meraviglie magiche si possa pervenire per via di sapere o di studio, e che nome di scienza si possa dare a così fatta sciocchezza e impostura. Rifiuto inoltre di considerare come reale ogni patto espresso o tacito fra uomini e demoni. Volete voi, o santi uomini, di considerare permesso da Dio il patteggiamento con il demonio, in modo che questi possa promettere ciò di cui non ha autorità? Si vuol forse far del diavolo un Dio? Queste opinioni vi umilierebbero assieme a ogni altro credente, e ci farebbero conoscere quanto poca cosa sia l’umano intelletto. Dei fatti strani che alcune menti esaltate riportano, molti sono depravazioni del senno, altri veri, naturali, ma non conosciuti, che non tutto e tutto assieme si può conoscere nella vastità della natura creata da Dio. Non vi sono forse molti passi delle Sacre scritture che affermano che Satana sarà legato fino alla prossima venuta del Signore? E i Padri della primitiva chiesa, che disprezzavano come pagana e illusoria l’arte magica, non faranno dunque certezza? Non affermò il nostro S. Gerolamo che dall’avvento del Cristo ogni allegorica intelligenza sarebbe stata messa in fuga, e che coloro che conoscevano la malefica arte egiziana, che illudeva con le superstizioni i popoli soggetti, sarebbero stati confusi?”. Mentre parlava, Cornelius guardò con la coda dell’occhio la pretesa strega, ne sentì con preoccupazione la sua adesione convinta alle tesi assurde dell’Inquisitore, indovinandone i pensieri. Né le percosse, né le botte, né le violenze e torture subite la indignavano, spaventandola. La debolezza fisica, lo stordimento, l’estraniamento le faceva vedere l’aula del tribunale come dall’alto e gli Inquisitori e gli spettatori come delle marionette del teatro dei burattini che a volte recitavano nel suo paese. Era il suo momento. Lei era la strega che, pur disprezzando, ognuno temeva. Le umiliazioni terribili della sua condizione di povera femmina svanivano di fronte alla figura oscura del suo potente protettore, il diavolo. Amava le accuse che le portavano e i preti che le affermavano accanendosi, come le testimonianze oscene e morbose dei contadini che la indicavano a dito con rabbia. Era il suo potere, di cui si convinceva. Certamente aveva avuto il potere di far morire le vacche dei villici nelle stalle, incarbonchiare il grano, marcire l’orzo e il luppolo, inacidire il vino nelle botti, procurare aborti con lo sguardo, e rendere torvi e rossi gli occhi degli uomini. Il suo odio era feroce e reale per chi ogni giorno aveva il suo cibo, e la pannina per cucirsi i vestiti della domenica, da spocchiare durante la Messa. Le femmine grasse e sfatte dai figli erano onorate nella loro superbia, mentre la sua sterilità la rendeva invisa e sospetta a ognuno. Non vi era giorno che il marito non la picchiasse quanto tornava dall’osteria, e doveva nascondergli i resti del pane secco per nutrirsi, per non farglieli buttare nella concimaia della vicina per farle danno e dispetto. Come erano piccoli ora i grandi, i forti, i sapienti e i potenti di fronte a lei, e cercava con difficoltà di immaginarsi quei gelidi coiti con il demonio che le attribuivano, nel suo algido e miserabile materasso di paglia, e godeva nella sua miseria fisica di alcune pulsazioni e brividi quanto più graditi quanto più orridi. Cornelio sentiva montare in lei l’astio verso il suo difensore, che negava il potere che le attribuivano, l’importanza che le tributavano, e sapeva che se l’avesse interrogata, avrebbe ammesso ogni crimine, ogni malia, ogni eresia. Così, per levare l’attenzione degli inquisitori dall’accusata, attaccava senza prudenza e con foga le loro tesi assurde e la loro stessa buona fede verso un’ortodossia di cui si sentivano difensori e depositari. “Potete solo per un attimo, venerabili padri, smentire cosa affermano i teologi, da Tommaso allo Scoto ad Anselmo, dai filosofi come Pico, dai medici come Varesio, Condronchus, Bokel, Cesalpino e altri, che contestano la tesi magica che la forza dell’immaginazione si estenda e si espanda ben lontano, in modo che possa guarire o influenzare i più distanti? Ben si deve disdegnare la superstiziosa credenza che mediante l’immaginazione lo spirito venga spinto fuori dal corpo e possa operare visioni e prodigi a distanza. Respingete, o inquisitori delle eretiche pravità, simili eretiche follie che vanno a danno della vostra anima e della purezza della nostra ortodossia. Altrimenti, sarete come avvoltoi intrisi di sangue, che abusano dei privilegi dell’ufficio dell’inquisizione a voi concessi, e ancor più vi intromettete contro le ragioni e i canoni nelle giurisdizioni dei processi ordinari. Per qual mai ragioni incrudelite contro delle povere contadine, accusandole di sfregamenti e fatture che gli fate confessare per mezzo di orrende torture e mai sospetti avete contro matrone borghesi e dame? Non avrebbero queste maggior dinari da poter convertire la pena corporale secondo vostro uso e interesse? Non avrebbero maggior beni da confiscare e farvene la piccola preda che vi concedono, così come è vostra consuetudine? È pur vero che è forte si difende da sé, e preventivamente dà denari all’inquisitore, che più non sospetta”. Nonostante la sua veemente denuncia, Cornelius riuscì ad avere buon gioco, soprattutto per la divisione della comunità di Metz nei confronti della Riforma. La sua tesi sull’incompetenza degli Inquisitori al giudizio prevalse. Nell’attesa del tribunale ordinario, il Capitolo della Cattedrale decise di far condurre la povera contadina accusata nelle più sicure prigioni di Metz. Ma un fatto nuovo e positivo condusse Cornelius alla vittoria legale. L’ufficiale istruttore si ammala e nel suo letto di morte, cedendo alla coscienza e al timore del castigo eterno, detta a un notaio un atto in cui riconosce la falsità delle accuse alla pretesa strega e la sua totale innocenza. L’inquisitore rimane però insensibile, e con il pretesto che la morte dell’ufficiale aveva interrotto il procedimento legale, avoca a se la questione per sottoporre nuovamente la vittima a tortura e consegnarla definitivamente alle fiamme. Agrippa tornò immediatamente alla difesa. Al nuovo ufficiale nominato richiede un’ulteriore richiesta di proscioglimento, mettendo in evidenza la dichiarazione giurata e i rimorsi del defunto ufficiale. Il capitolo diede finalmente ragione ad Agrippa e respinse definitivamente le pretese dell’Inquisitore. Ma i suoi ripetuti atti di coraggio e di indipendenza, le sue infinite questioni con i teologi, lo portarono alla necessità di fuggire da Metz, per rifugiarsi in Svizzera. Ciò che rese intollerabile Cornelius ai teologi di Metz, non fu tanto la sua confutazione delle tesi criminali e strumentali degli inquisitori di fronte alle streghe, quanto la sua difesa ad oltranza del suo amico, il filosofo Jacques Lefèvre d’Etaples (Faber stapulensis) che aveva scritto una tesi pericolosa per l’ortodossia e gli interessi della lupa Vaticana. Nei suoi testi De Maria Magdalena e De tribus et unica Magdalena disceptazio secunda, Jacques aveva ipotizzato che le figure di Maria sorella di Lazzaro, Maria Maddalena e della prostituta pentita che aveva unto i piedi del Cristo erano tre persone distinte. La questione non era di lana caprina, ma incideva su un’antichissima leggenda che indicava in Maria Maddalena la compagna di Cristo e la madre dei suoi figli. Cornelius si batté a favore della tesi. Le sue funzioni pubbliche questa volta non lo salvaguardarono. Dovette andarsene da Metz. Scrisse al fidatissimo amico Landolfo, che sapeva a Lione, della sua partenza, per ricordare i patti della loro iniziazione: “…dopo queste terribili prove non ci resta che ricercare i nostri amici, a rinnovare i sacramenti della nostra congiura e a ristabilire l’integrità della nostra associazione; io ho già fatto entrare con un’affiliazione solenne il venerabile compagno della mia lunga peregrinazione, Antonio Xanto. È fedele e taciturno, e degno di essere dei nostri. L’ho provato e istruito.” Cornelius raccoglieva in fretta in una sacca quel poco di vesti e di biancheria che possedeva, quei quattro libri di cui non aveva mai potuto fare a meno e, stringendosi la cinta, vi attaccava il calamaio di sicurezza e l’astuccio della penna. Nascose la scarna borsa all’interno della camicia e si diresse verso la porta, aprendola verso la notte. Alle mura di Metz, le guardie lo fermarono, ma riconosciutolo nella sua fama di mago e stregone, gli aprirono velocemente e prudentemente la porta della città. La marcia verso la Svizzera era lunga, come ogni cammino di libertà, ma vi era una gioia potente ed eccitante nel raggiungerla. Si incamminò nel buio, appena illividito da un’ancora lontana luce dell’alba. Era freddo, ma la notte era limpidissima e le stelle erano catturate da una rete candida e fulgente. I suoi amati cani, Monsieur e Mademoiselle, gli alani neri come la pece che il popolino designava a suoi demoni familiari, lo accompagnavano e gli davano la sicurezza della difesa. Cornelius aveva il passo svelto del viaggiatore, vestito dal lusso di un paio di scarpe robuste, risuolate, chiodate e ben incerate. Guardava bene dove metteva i piedi, si stringeva in se stesso per darsi calore, nel gelo notturno del Febbraio, e regolava il ritmo dell’andare con il respiro, sbirciando le stelle. Era ancora il tempo di dirigersi altrove, senza eccessive preoccupazioni per il dove, come e quando. Per quanto ne avesse buoni motivi, Cornelius non fuggiva mai dal laccio del boia, se ne allontanava soltanto. Soprattutto non fuggiva mai da un se stesso, spregiato e calunniato, di cui era fiero, come un bell’abito elegante, anche se un po’ liso, che trattava confidenzialmente e ironicamente, nella consapevolezza che il fango e i rovi l’avrebbero poi definitivamente macchiato e strappato. Nel suo spedito andare, rimuginava sulle motivazioni dei preti sull’anatema agli studi di Jacques. L’affermazione ossessiva della castità di Gesù non derivava soltanto dall’abominio di ogni attività sessuale non diretta alla procreazione, caratteristica del giudeo-cristianesimo. Se Gesù aveva sofferto umanamente nella carne sulla croce, altrettanto umanamente avrebbe potuto gioire del corpo di una femmina, senza che ciò incidesse sulla sua ipotetica divinità. Se Gesù avesse avuto una relazione con Maddalena avrebbe potuto avere una discendenza, che avrebbe potuto dichiararsi superiore all’autorità del papa. Se la sessualità libera, una delle imprescindibili necessità umane, non fosse stata considerata un peccato, come si sarebbe potuto indurre un complesso di colpa continuo, che soltanto l’intermediario divino, il prete, poteva perdonare in cambio di potere e di denaro? Secondo S. Gerolamo “omnis coitus immundus”, ma i figli di preti e papi avevano ammorbato anche il soglio di Pietro. Non tutti i coiti sono immondi – pensava fra sé la genia ecclesiale – ma solo quegli altrui. Cornelius concludeva che tutta la teologia, la cui essenza più astratta era stata ispirata dalla filosofia platonica, era stata inventata per il controllo delle menti e dei cuori, con una crudele, cinica, atroce prevaricazione della libertà e della dignità dell’uomo. Gli uomini sono uguali nelle emozioni e nei sentimenti, ma diversi nelle facoltà dell’intelletto. Ma anche il meno dotato avrebbe notato le incongruenze e gli inganni di una disciplina teologica volta al dominio. Nacque così, nella malizia della chiesa romana, nelle prediche e nelle omelie, l’imposizione continua e ossessiva della paura, che essendo la fondamentale debolezza dell’umanità, superava e spengeva qualsiasi razionalità. Immerso nei suoi pensieri, Cornelius ansimava un po’ nell’andare, ma il suo passo era fermo e costante. Vi era silenzio nella notte, e solitudine, anche se gli innumeri occhi delle stelle lo guardavano fisso nella stessa maniera degli uomini, un po’ ammirate, un po’ perplesse, un po’ impaurite. Cornelius non era un individuo eccezionale, e se lo fosse stato non avrebbe voluto esserlo, per una sorta di pudore dell’essenza di sé che non lo aveva mai abbandonato. Ma la pratica del vento nelle altitudini, dello spasimo incompreso della scalata alle vette invisibili lo aveva allontanato dagli uomini, che sapeva pur guardare con occhi buoni, ma con la piega della bocca amara, il ciglio alzato nel dubbio. La strada si faceva più alta, gli alberi più folti e cupi, ma le stelle erano sempre eternamente presenti nel cielo esteriore e interiore di Cornelius, e ognuna di esse era un’idea, un pensiero, un segnacolo e un ricordo di piccolissime gioie e di grandissime pene. Più saliva la strada, più il respiro diventava pesante, il peso del corpo più greve. Ricordò per analogia il grande amico Rabelais, che lo chiamava con affetto “Her Trippa” per la sua maestosa corpulenza, e che nel suo Gargantua e Pantagruel lo prendeva sapientemente per i fondelli. Rabelais sapeva bene che lui, cencio, osava parlare di straccio, con la sua bella epa ben riempita dalla Divina Bottiglia, la grande dea dell’Abbazia di Théleme, dove non esisteva altra regola che quella dell’amore e della libertà. Rabelais era nella gabbia del monastero di Fontenay-le-Comte, e si sfogava scrivendo con genio, rabbia, ironia e sarcasmo di Gargantua e Pantagruele, candidi e giganteschi, dediti alla sublimità dell’eccesso, all’ingenuo e temuto potere di chi schiaccia per ingombrante mole, ma con innocenza piena ed allegra. Ma gli uomini non sono giganti, non sono innocenti. Cornelius si temprava nella fatica dell’andare, si vedeva e si compiaceva dell’immagine interiore del suo volto, ormai gelato e teso come un vecchio cuoio martellato, che modellava su quello del suo antico maestro di magia, il famoso abate Tritemio, Johannes Tritemius di Sponheim, abate nel monastero di S.Jakob, presso Würzburg. Da lui aveva appreso a scrivere con il malakim, l’alfabeto e la lingua degli angeli, e con la Steganografia, con la quale si poteva comunicare per iscritto senza che alcuno, non in possesso del segreto, potesse leggere alcunché. Ma ancor più aveva appreso gli assiomi fondamentali della magia, e assunto l’impegno ad applicarne quanto meno il sesto: “Se sei forte ti difenderai. Ma se sarai ancora più forte difenderai i più deboli. Sappi essere da più senza superbia e da meno senza invidia. Questo è il vero potere. Solo così il tuo sarà integro.” L’abate gli insegnò a separare l’intelletto dal corpo, e l’immaginazione dalla sensazione, a vedere i colori con gli occhi della mente ma, soprattutto, a sognare per ben apprendere e a far sognare per ben insegnare. Tritemio lo iniziò a un’antica confraternita, che nei secoli cambia nome ma non essenza e sapienza e che da sempre combatte la malizia e la malafede dei potenti. Cornelius, uscendo un attimo dai ricordi, sorrise e fece il segno che lo collegava ai suoi fratelli passati, presenti e futuri. I ricordi si interrompevano, inframezzandosi alle riflessioni. Cornelius quando era solo non controllava il pensiero, secondo il metodo della Scolastica, concentrandolo su uno o più concetti, lasciava che la sua mente vagasse dove voleva, come un cavallo brado in una prateria. Anch’essa doveva esser libera, così come lo erano sentimenti ed emozioni. Ma il premio o il prezzo di questa libertà era la solitudine. Eppure amava stare in mezzo agli uomini e ancor più adorava la conversazione delle donne, anche se spesso queste esprimevano solo delle ciance senza senso o scopo. Ma le donne amano essere ascoltate e se a volte ti ascoltano è solo per rendersi conto se sono state ascoltate, perché su ciò hanno sempre molti dubbi. Ma su di questo Cornelius non aveva scritto nel suo libro De la nobilissima nobiltà e precellenzia del femminile sesso, che aveva dedicato alla Signora Margherita Augusta, Principe di Austria e Borgogna, in cui aveva sostenuto la preminenza delle donne sugli uomini. Si divertì comunque ad affermare che la cabala dimostra la superiorità della donna sull’uomo, avendo avuto all’origine un nome più eccellente. Adamo, infatti, significa terra ed Eva vita. Le donne, affermò, sono più eloquenti perché non si è mai dato il caso di donna silenziosa. I poeti sono vinti dalle donne nelle loro garrule e sussiegose ciance, e i dialettici mai con loro la spuntarono. Ma parlando dell’amore, affermò che per consenso di tutti i filosofi e teologi, è il desiderio che ci porta verso la bellezza, ma seguendo la platonica opinione, soprattutto verso la bellezza nascosta, di cui le bellezze visibili non sono che un simbolo. Così l’amore sensuale può portare a quello divino che nobilita ed eleva la natura umana che, per dono divino, è più perfetta nella donna. In realtà ogni essere umano vale di per sé, di là dal sesso al quale appartiene. Ma come non lodare ciò di cui si può restare in eterna ammirazione, e non inginocchiarsi di fronte al disegno arcano di una bella bocca, al batter di lunghe ciglia. Come si può non ascoltare senza devozione profonda delle belle bugie, più splendide che qualsiasi verità, o ancora non adorare quell’illusorio senso femminino di dominio mascherato da ansia materna, quel loro voler ingannarsi, credendo a tutti i costi che un guinzaglio da cagnolino possa veramente cingere il collo di un leone. Ma reale è il fascino, che è un incanto che dagli occhi si dirige al cuore. Questo incanto è un’aere sottile, puro, lucente, generato dal sangue reso caldo dal fuoco del cuore, che si dirige come una freccia verso un altro cuore. Agrippa lo avrebbe riconosciuto subito, se lo avesse trovato, come un profumo pungente e struggente che avrebbe invaso completamente il suo essere, fin nei precordi. Raro e imprevedibile è l’amore, come trovare all’improvviso un rosaio fiorito nella neve, o vedere il colore della primavera nel grigio di un interiore inverno infinito. E Cornelio ricordava, mescolando tanti volti di donna e incrociando memorie e tempi e luoghi, sì che niente era poi diverso e disperso, ma un tutto unico, come in un’unica persona. Ma quell’unica non era mai stata poi l’unica per cui avrebbe lasciato sapienza e fama, a coltivare assieme un orto e governare una stia per il solo cibo quotidiano, fino a che la luce del giorno sfumasse nell’ombra della notte. Cornelio era solo e si permise di piangere, nel dolore di non poter ricordare ciò che non aveva vissuto, se non nel sorriso e nello sguardo di un attimo solo. Se avesse potuto, con le sue magie, ampliare quell’attimo per farne un’eternità! Ma il pensiero, che vaga e non ha sosta, lo distolse da quel dolore vivo. Nella strada gelata il ghiaccio scricchiolava sotto i chiodi delle sue scarpe, il plenilunio luminoso gli rendeva la strada più chiara. Forse non vi era un senso nel partire o nell’arrivare, ma lo era nell’andare. Cornelio si esaltava nel rigore del freddo, nella fatica del percorso, nel non dover parlare con alcuno, se non con se stesso, e il ritmo del passo era quello stesso dell’universo. Le stelle vive cominciarono a vibrare e a comporre delle scie luminose nel cielo, come a comporre un disegno, o una scrittura. Ma erano anche volti di dei sorridenti, che calmavano l’inquietudine incessante di Cornelio, la sua ansia di continua conoscenza, il suo disagio segreto di inadeguatezza e malinconia. Vi erano anche occhi nelle stelle, pieni di un amore che non conosceva tempi o modi o opportunità, ma viveva di per sé essendo troppo grande per cuori troppo angusti. Come potevano così cambiare le stelle, sempre appena mosse da un ammiccare splendente, e divenire come soli immensi e girare come ruote di fuoco? E qual era la dea che appariva nel loro immenso fuoco? Forse era la fatica del cammino che produceva a Cornelius una grande sete, ma sapeva che la sua borraccia non gli avrebbe dato refrigerio. Solo la dea aveva le acque che scaturiscono dall’oro del Sole e dall’argento della Luna, solo queste avrebbero potuto estinguere la sua eterna sete. E le acque superarono le cateratte della legge universa e straboccarono nella loro liquida levità, e dal cielo scesero a bagnare la terra arida e gelata sotto i piedi di Cornelius. La notte stellata del manto della dea impallidì nel sorgere del Sole, l’Uno che tutto in sé contiene, intelligenza, forza, moto e vita. La dura terra invernale si disciolse e si intiepidì, ogni fiore d’ogni colore spuntò fra l’erba tenera e verde come smeraldo. Mille sorgenti sgorgavano dalle viscere dell’antica Gea, fonti d’acqua preziosa e generativa. Così Cornelius ebbe il dono che aveva sperato la sua immaginazione e guadagnato con l’asprezza e la dedizione della sua vita. Forse mai più per lui sarebbero sgorgate le acque del cielo della dea, ma l’illuminazione che non si può scordare sarebbe rimasta nel suo spirito per sempre. Così fu la vita di Cornelius, il mago che molto vi amò, o uomini e donne, non dissimile in fondo dalla vostra se saprete come lui usare ragione ed emozione con dignità e libertà. |