I Riti Agrari – parte 2

Miti e SimboliPlutarco è stato il primo a cadere nell’equivoco etnocentrico, quando scrive che gli egizi attribuendo le piante ad un dono degli dei hanno finito per confondere gli uni con le altre. In particolare le ultime generazioni sarebbero incorse in un equivoco verbale, confondendo il nome divino associato alla pianta e finendo con l’adorare quest’ultima.

I Riti Agrari – Parte 2

di Antonio D’Alonzo

Plutarco è stato il primo a cadere nell’equivoco etnocentrico, quando scrive che gli egizi attribuendo le piante ad un dono degli dei hanno finito per confondere gli uni con le altre. In particolare le ultime generazioni sarebbero incorse in un equivoco verbale, confondendo il nome divino associato alla pianta e finendo con l’adorare quest’ultima.

Questa sorta di leit-motiv etnocentrico sull’inversione della causa (gli dei) con gli effetti (le piante), ritorna periodicamente come asse portante della polemica dei greci contro gli egizi e degli ebrei contro gli idolatri, irrorando il pregiudizio evoluzionistico ottocentesco che trasforma la religione in superstizione.

I popoli senza scrittura sono ridotti alla stregua di selvaggi, privi di elevatezze interiori ed incapaci di provare quei sentimenti autenticamente spirituali che sono peculiari invece ai fedeli del dio monoteistico. Al contrario, come ricorda Eliade, una pianta o un sasso sono sacri non in sé stessi, ma in quanto ierofanie, manifestazioni del sacro che irrompe attraverso di essi.

La pianta è dunque un simulacro della forza (cratofania) o del sacer (ierofania): in ogni caso si tratta di un rapporto di irruzione del mana; così come nelle religioni estatiche l’invasato è un semplice supporto dell’entità che si manifesta attraverso il suo corpo, anche se il rapporto gerarchico tra copia e modello platonico non è mai del tutto trasceso. Soltanto nell’attimo della possessione la diversità ontologica tra l’uomo e lo spirito è annullata nel corpo-ricettacolo e l’invasato diventa dio; ma con la fine dell’ebbrezza estatica i normali rapporti sono restaurati fino alla prossima teofania: non a caso lo spirito della vegetazione è incarnato da un animale o da un uomo da sacrificare o da bandire, una volta esaurito il compito di fungere da ricettacolo del mana.

Questo dimostra che chi praticava i riti agrari era in grado di distinguere tra il fenomeno ed il noumeno, il simulacro ed il trascendente (anche se nel culto della Madre Terra non si arriverà mai ad elaborare il concetto di trascendenza con la stessa intensità delle religioni del dio celeste).

Il pregiudizio etnocentrico – per il quale l’unica scala di valori universalmente estendibile è quella desunta dall’eredità dei Lumi – si fonda prevalentemente sulle lezioni di filosofia della storia di Hegel. Il filosofo tedesco negò la possibilità di uno sviluppo storico alle popolazioni africane – relegandole in una perenne infanzia dello spirito – così come rifiutò l’equiparazione tra la filosofia greca ed il pensiero indiano e cinese.

Oggi – esautoratasi la vecchia chiave interpretativa hegeliana – un barlume della spocchia coloniale persiste nell’immaginario dell’uomo comune. Vale la pena, dunque, ribadire ancora una volta che se è vero che l’uomo moderno possiede uno sviluppo cognitivo superiore – dovuto all’intelligenza nozionistica o “cristallizzata” – sul piano delle capacità logiche innate (intelligenza “fluida”), il “primitivo” possiede le stesse potenzialità.

Al contrario, le differenze devono essere ricercate nella sfera emotiva ed intuitiva, giacché la vita moderna atrofizza quelle qualità indispensabili per sopravvivere nella foresta o nella steppa.

La condizione moderna – lungi dal risuonare l’ultimo squillo di una marcia trionfale – è piuttosto una zoppia, una menomazione irreversibile, cui l’apparato cerca invano di rimediare con la diffusione di mondi cibernetici e virtuali.

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