Il Viaggiatore e la Strada

Letture d'EsoterismoEssere un viaggiatore è innanzi tutto una condizione interiore. Il viaggiatore, da una parte è disponibile e curioso nei confronti del ciò che incontrerà lungo la propria strada, dall’altra per poter viaggiare deve rinunciare ad avere delle radici da qualche parte ed a desiderare di stabilirsi definitivamente nei luoghi in cui si imbatte nel suo viaggio.

Il Viaggiatore e la Strada

di Alessandro Orlandi

“Senza uscire dalla porta, conoscere il mondo! Senza guardare dalla finestra, vedere la via del cielo! Più lontano si va, meno si conosce. Perciò il Santo conosce senza viaggiare, egli nomina le cose senza vederle, egli compie senza azione.” – (Lao Tze – Tao Te Ching – XLVII)

“Quando non sai dove stai andando, qualsiasi strada ti condurrà là.” – (L. Carrol – Alice nel Paese delle Meraviglie)

Essere un viaggiatore è innanzi tutto una condizione interiore. Il viaggiatore, da una parte è disponibile e curioso nei confronti del ciò che incontrerà lungo la propria strada, dall’altra per poter viaggiare deve rinunciare ad avere delle radici da qualche parte ed a desiderare di stabilirsi definitivamente nei luoghi in cui si imbatte nel suo viaggio.

Lo stato di continuo movimento è la situazione in cui egli si riconosce e si trova a suo agio. Egli è, per definizione, colui che percorre il sentiero che separa due luoghi e dunque la sua funzione è quella di essere un mezzo per unire i vari punti di quella strada, l’araldo che annuncia il prepararsi degli eventi.

Dal suo punto di vista, quello che conta non è la meta, la destinazione finale, né il luogo di provenienza, ma il movimento stesso, il “qui ed ora”, l’eleganza con cui il viaggio viene compiuto e portato a termine.

Lungo la via si imbatterà in costumi, consuetudini, e linguaggi eterogenei e dovrà avere la capacità di adattarvisi di buon grado senza per questo rinunciare a se stesso ed al suo viaggio. Dietro la mutevolezza, l’adattabilità e l’accondiscendenza, si dovrà quindi nascondere anche la volontà inflessibile di non perdere mai di vista la natura transitoria del proprio rapporto con situazioni, persone e cose. Poiché, inoltre, l’essenza di un viaggio sta nel modo di percorrere la strada e non nella meta finale [1], che può anzi mutare lungo il tragitto, ciò che gli sta definitivamente a cuore è lo stabilire un rapporto armonico con i luoghi attraversati, il rispettare i ritmi naturali e le usanze che li caratterizzano.

Nel mondo moderno è prevalsa una concezione del viaggio che è l’esatto contrario di quella delineata fin qui. L’aspetto importante e rilevante di un viaggio sembra unicamente la conquista della meta finale, che va raggiunta il più rapidamente possibile ed a qualsiasi prezzo. Non è ben chiaro se sia stata questa concezione a condurre alla “contrazione dello spazio” che tutti oggi sperimentiamo viaggiando in automobile, in treno o in aereo, oppure la contrazione dello spazio si sia tradotta in una differente visione del viaggio. Di fatto la strada che separa due luoghi viene vista come un noioso ostacolo da superare velocemente.

Il viaggio si trasforma allora in uno “strappo” che consente al viaggiatore di recarsi nel luogo stabilito senza dover prima trasformare, strada facendo, sé stesso, né doversi adattare in alcun modo al posto raggiunto.

Il risultato è una crescente uniformità tra le grandi città del pianeta, che vanno sempre più assomigliandosi tra loro nell’offrire a chi le visita, solo una collezione di immagini precostituite da riportare a casa come altrettanti trofei.

Da questo punto di vista, il passaggio dall’Asino all’aeroplano non sembra essere poi stato un gran guadagno.

Va ora osservato che l’idea del viaggiare, che ormai l’uomo ha, rispecchia pienamente il modo con cui egli si rapporta alle sue azioni. Infatti, ogni azione che compiamo non è che un viaggio tra due stati dell’essere, uno vissuto come “originario”, l’altro come meta finale. Privilegiare la meta, decretare la supremazia del fine sui mezzi impiegati per conseguirlo, significa tradire ed avvilire lo spirito del viaggiatore che è in ognuno di noi e degradarci allo stato di schiavi delle forme-pensiero create dalla nostra mente.

Anche quella di accumulare conoscenze, idee e spiegazioni è un’attività del tutto inutile se non è intesa come percorrere un sentiero in continua trasformazione e se non si è sempre disposti ad abbandonare ciò che si è già attraversato.

Bisogna, anzi, accettare che esistono l’inspiegabile, l’inconcepibile e l’ignoto, e che il nostro tentativo di sovrapporgli interpretazioni e direzioni altro non è che un arbitrario riordinamento consistente nell’adattare il mondo a noi stessi per permetterci di agire ed orientarci. Il viaggio nel paese più sperduto e lontano, la scoperta più mirabolante, la più sperduta elucubrazione intellettuale, alludono solo indirettamente ad un insegnamento invisibile, celato nelle profondità del nostro essere, e ce lo mostrano attraverso forme esterne.

Sono il nostro Ego e la paura di morire, che continuamente devono far dipendere ciò che esiste dal nome che noi ne diamo. Qualsiasi spiegazione delle cose non è che uno stato transitorio dell’anima, una breve tappa nel nostro viaggio della vita, sia essa l’insieme dei pregiudizi del nostro ambiente o il contenuto di un libro sui simboli.

Troppo spesso scambiamo con la ricerca della conoscenza l’impulso a fare un inventario di tutto ciò che ci circonda, per racchiuderci in un involucro onnicomprensivo, rigido e rassicurante, simile al guscio di una tartaruga. Non è inutile, a questo proposito, ricordare ciò che Don Juan dice a Castaneda [2]: “I veggenti fanno l’inventario perché non possono disobbedire. Però una volta che l’hanno fatto, lo buttano dalla finestra. L’Aquila non ci ordina di adorare il nostro inventario: ci ordina di farlo, ecco tutto.”

Se si è inclini ad una visione più razionale dell’esistenza, le parole con cui Ludwig Wittgenstein conclude il suo Tractatus Logicus Philosophicus sono rivelatrici: “Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su di esse – oltre esse (egli deve, per così dire, gettare via la scala dopo che c’è salito – ndr.) Egli deve superare queste proposizioni, allora vede rettamente il mondo. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”.

Ci si potrebbe infine chiedere se, allora, il viaggiatore non sia inutile, dato che tutto ciò che possiamo scoprire si trova in realtà già in noi stessi.

Narra un’antica leggenda [3] che un vecchio ebreo di Cracovia sognò una notte il Palazzo Reale di Praga e vide nel sogno che, sotto la garitta di una sentinella, era sotterrata una pentola piena d’oro. Poiché il vecchio credeva ai suoi sogni, decise di partire e tentare la sorte. Così, dopo alcuni giorni di viaggio, giunse a Praga e si recò al Palazzo Reale. Tutto era come nel sogno e trovò effettivamente un luogo ed una sentinella che corrispondevano nei minimi particolari a quelli che aveva visto dormendo. Il vecchio si avvicinò alla sentinella e, raccontato il sogno, chiese il permesso di scavare sotto la garitta. La sentinella si fece beffe di lui e lo schernì invitandolo a desistere dall’impresa. “Che dovrei fare allora io – disse – che ho sognato di un vecchio ebreo di Cracovia che aveva una pentola d’oro sotto la sua stufa?”

Tornato a Cracovia, il vecchio scavò sotto la stufa e divenne ricco. Se egli però non fosse mai andato a Praga, sarebbe rimasto povero e non avrebbe mai saputo che la pentola si trovava sotto la sua stufa, poiché quello era il sogno della sentinella.

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Note

1. Cfr. anche quanto dice Kerenji sulla condizione del viaggiatore, nel saggio “Hermes, la guida delle anime”, in “Miti e Misteri” ed. Boringhieri 1979. (torna al testo)

2. Cfr. “Il fuoco dal profondo” C. Castaneda, cap. V. (torna al testo)

3. Riportata, con qualche variante, anche da Mircea Eliade, in “Prova del labirinto”. (torna al testo)

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