Sulle iniziazioni dionisiache

Letture d'EsoterismoRicorderemo qui alcune caratteristiche del dio Dioniso, chiedendoci, allo stesso tempo, se ci sia ancora qualcosa da imparare da lui ai nostri giorni…

Sulle iniziazioni dionisiache

di Alessandro Orlandi

Ricorderemo qui alcune caratteristiche del dio Dioniso, chiedendoci, allo stesso tempo, se ci sia ancora qualcosa da imparare da lui ai nostri giorni…

1. L’enthousiasmos, la sacralizzazione degli istinti e il dio del vino

Gli iniziati ai misteri del dio lo celebravano in gruppi chiusi, i cosiddetti “backeia“, in uno stato di possessione detto “enthousiasmos“, qui l’origine del termine “entusiasmo”: uno stato in cui gli iniziati erano pieni del dio. Non si trattava solo di uno scatenamento orgiastico di istinti animali, ma anche di danza, gioco, allucinazione, era uno stato contemplativo ed estatico, ma anche un modo di controllare emozioni travolgenti. Uno dei più grandi studiosi della cultura greca, Giorgio Colli, diceva: “Rotta la sua individualità, l’inziato ai Misteri di Dioniso vede quello che i non iniziati non possono vedere, giungendo anche alla divinazione e alla profezia”.

Come si evince anche dagli affreschi della “Villa dei misteri” di Pompei [1] (vedi L’iniziazione ai culti femminili nei Misteri del mondo antico /2), che raffigurano una iniziazione dionisiaca, Dioniso era un dio che collegava microcosmo e macrocosmo: il ritmo del sole nel suo cammino annuo era un “segno celeste” che indicava ad ogni individuo  la via da seguire per conoscere se stesso.

Attraverso l’”enthousiasmos” il dio toglieva ai suoi iniziati ogni contatto con la “realtà ordinaria” e con la sobrietà e la lucidità del vivere comune. Dava invece come dono la consapevolezza che anche gli istinti più bassi ed animali, apparentemente i meno “nobili”, racchiudono una scintilla divina. Sottraeva l’uomo dalla sua presenza nel mondo della quotidianità, è vero, ma in compenso gli mostrava ciò che si cela dietro le maschere che indossiamo ogni giorno.

A generare la sovrapposizione tra Dioniso e il vino sono proprio le modalità di preparazione della bevanda, dalla danza arcaica dei pigiatori d’uva, mascherati da Satiri e Sileni, ai processi di fermentazione e maturazione del vino che ribolle nelle anfore e nei tini, perfezionandosi ad opera del fuoco che lo anima.

Il vino, sangue della Terra, induce alla procreazione, alla possessione, all’affratellamento e alla convivialità, alla sensualità e alla perdita delle inibizioni.

Il bere vino insomma metteva in moto, scatenava, nei posseduti da Dioniso, un aspetto dell’istintualità altrimenti bloccato da mille condizionamenti perché vissuto come pericoloso. Questa esperienza conduceva allo stupore, di sentirsi abitati da forze invisibili e di origine ignota.

Col termine “entusiasmo” intendiamo anche oggi una forma di possessione, accade che una immagine scaturita dal nostro cuore, o una forma-pensiero, che può essere il volto della donna amata, un progetto per il futuro, una ideologia politica, l’adesione a modelli di comportamento, l’effetto di una musica sulle nostre emozioni, abbia il potere di costellare il nostro mondo immaginativo e si impadronisca non solo della nostra fantasia, ma anche dei nostri comportamenti. E qui vorrei sottolineare che l’entusiasmo, proprio come accadeva per i seguaci di Dioniso, è spesso un fenomeno collettivo, basti pensare ai grandi totalitarismi che hanno caratterizzato il secolo scorso, o anche a una semplice partita di calcio o a un concerto rock e al tipo di adesione che le masse hanno nei confronti di questi fenomeni, amplificato dai moderni mezzi di comunicazione. Il punto è però questo: gli iniziati agli antichi misteri dovevano compiere un cammino alla fine del quale incontravano se stessi, integrando il loro lato oscuro con quello luminoso. Alla fine del cammino conquistavano quella che potremmo chiamare “l’intelligenza del cuore”.

Omero sosteneva che i sogni, così come le immagini del cuore, scaturiscono da due porte, una di corno, da cui provengono i sogni sapienziali e quelli profetici, le visioni profonde sulla natura del mondo e dell’anima, l’altra di avorio, da cui provengono invece i sogni menzogneri, le illusioni e gli inganni del cuore. Gli iniziati che venivano posseduti da Dioniso dovevano essere in grado di distinguere le immagini veraci, che provenivano dal dio, da quelle illusorie, che non potevano insegnare loro nulla. Portavano in dote il confronto con le loro Ombre, una sorta di vaccino contro gli inganni del cuore. Potremmo quindi dire che l’enthousiasmos degli iniziati a Dioniso recava l’impronta del loro percorso nel mondo sotterraneo, della morte simbolica che avevano vissuto, e dava loro accesso alla sapienza del cuore, a quel livello profondo di percezione della realtà al quale hanno accesso solo gli artisti e i poeti, dava loro la capacità di pescare nel pozzo profondo dell’inconscio immagini capaci di gettare luce sul passato, sul presente e sul futuro.

Cosa dire dell’entusiasmo così come lo sperimentiamo oggi? È ancora una forma di conoscenza? Se non percorriamo un cammino autentico di conoscenza di noi stessi non c’è modo di distinguere tra le immagini veritiere del nostro cuore e quelle fallaci, tra quelle che ci conducono verso il nostro destino e quelle che ci portano solo in vicoli ciechi, a disperdere le nostre energie, tra l’amore per le persone che ci corrispondono veramente e le infatuazioni momentanee, tra l’adesione a idee che veramente possono portare l’umanità verso un futuro più luminoso e le vuote ideologie. È anzi preoccupante la facilità con cui radio, televisione, pubblicità ed altri mezzi di comunicazione possono indirizzare “l’entusiasmo” della gente verso obiettivi voluti, verso forme-pensiero che ci vampirizzano. In questo senso, credo, abbiamo molto da imparare dal mondo antico.

2. Il Dio fallico e lo sposo mistico che ha un imperativo: riunire ciò che è disperso. Mito del Dio, cuore raccolto da Apollo o da Atena

Dioniso era anche il dio della potenza generativa, della forza dell’istinto e del desiderio, raffigurata dai falli di legno che venivano portati in processione. Questo dono di Dioniso si manifesta anche attraverso la corrente della vita che tutti gli anni si rianima al solstizio d’inverno, allorché le giornate ricominciano ad allungarsi, determinando il risveglio della Natura. Prima in modo occulto e sotterraneo e poi palese, quella stessa corrente primaverile fa salire la linfa lungo i tronchi ed i rami degli alberi, fa scoccare la scintilla dell’eros che conduce all’accoppiamento gli animali, ha il potere di trasmettere e donare la vita, fa sbocciare i fiori e dischiude le crisalidi delle farfalle, fa fermentare e ribollire il vino nelle botti e riscalda il sangue dei mammiferi.

A questa corrente impersonale, universale ed immortale, che i Greci chiamavano Zoì, si oppongono le esistenze individuali, circoscritte e tese all’autoconservazione animate da una forza vitale destinata a estinguersi nella sua unicità, che i greci conoscevano come Bios.  Così la Zoì rappresentava la natura divina e immortale dell’uomo, mentre “Bios” era ogni individualità particolare, destinata prima o poi alle dimore di Ade.

Nelle iniziazioni e nelle feste dionisiache che celebravano il risveglio del principio vitale, fondamentale era il ruolo delle donne. Era infatti compito del polo femminile dell’esistenza risvegliare la Zoì addormentata nel letargo invernale, ridestare il fuoco sopito, rimettere in moto le potenti forze del desiderio e della crescita vitale, paralizzate dal gelo e dalla morte.  Le Menadi (nome con il quale erano indicate le Baccanti) si abbandonavano a danze sfrenate e orgiastiche in preda all’ebbrezza, seminude, si inerpicavano nel segreto dei monti per celebrare il sacrificio ed il pasto di carne cruda, brandendo serpenti vivi.

Dioniso era il dio che dispiegava in sé tutte le potenzialità del maschile, tutte le gradazioni della virilità, da quelle più animali e sotterranee a quelle celesti, in una continua compenetrazione tra gli aspetti sensibili e quelli sovrasensibili, tra la bellezza fisica e quella psichica, tra l’arte e le idee.

Suo compito era quello di armonizzare la sensualità e gli impulsi erotico-sessuali col desiderio di unione eterna con l’essere amato.   Bachofen  e Kerenyi sostengono che il “dio delle donne” incarnasse i due aspetti dell’Eros che l’evoluzione psichica femminile deve integrare tra loro: quello inferiore del “tellurismo eterico”, l’eros impuro delle profondità fangose, il dio legato alla morte delle energie giovani e all’erotismo indiscriminato e l’amante di Psiche, legato alla Venere celeste, al matrimonio sacro e all’unione eterna con l’essere amato.  “Una superiore esistenza spirituale deve necessariamente“, dice ancora Bachofen, “fondarsi sull’armonia con l’esistenza fisica“.

Qualche parola sui miti riguardanti Dioniso. Dioniso-Zagreo era nato da Persefone (o Demetra) unitasi a Zeus dopo che entrambi avevano assunto la forma di serpenti. Secondo il mito il dio fanciullo venne fatto a pezzi e divorato dai Titani, alleati con Saturno – Kronos e avversari di Zeus nel loro conflitto per regnare sull’Olimpo. Dioniso viene sorpreso dai Titani, mentre ha davanti a sé vari oggetti con i quali gioca (un dado, una trottola, un rombo, [2] un bambolotto articolato con caratteri itifallici, un filo di lana, un ditale, una mela d’oro ed uno specchio).

Mentre il fanciullo sta contemplando la propria immagine riflessa nello specchio, i Titani, mascherati e coperti da una polvere bianca (argilla o gesso), lo uccidono e si cibano delle sue carni, divise in sette parti, dopo averle prima bollite nell’acqua e poi arrostite nel fuoco. Dioniso viene fatto a brani dai Titani anche se ha la capacità di trasformarsi di continuo.  Prima che i Titani riescano a ucciderlo assume infatti l’aspetto di un leone, di un serpente, [3] di un capro e di un toro ed è in una di queste due ultime forme che viene smembrato.  Solo il cuore del dio viene risparmiato e raccolto, secondo le diverse varianti del racconto, da Apollo o da Atena. Fu fatta bere a Semele (era questo uno dei nomi che i Greci davano alla Luna) una pozione preparata con il cuore del dio, ciò che la rese incinta.  Hera, moglie di Zeus, covando propositi di vendetta, spinse allora Semele a chiedere a Zeus di mostrarsi nel suo vero aspetto e quando ciò avvenne Semele ne fu annientata.  Dioniso fu però salvato da Zeus che lo sottrasse alla morte proprio quando le fiamme stavano avvolgendo la pira funeraria di Semele e completò la sua gestazione cucito con fermagli d’oro nella coscia del padre degli dei.  Il Dio era per ciò detto “il tre volte nato” o “quello della doppia porta”.

Dioniso compariva anche nei misteri eleusini, dedicati alle due dee Demetra e Persefone, madre e figlia. Nel mito Ade, re degli Inferi, rapiva Persefone conducendola nel mondo sotterraneo come sua sposa. Dopo una lunga ricerca da parte della madre Demetra, Persefone veniva ritrovata e riscattata dal mondo dei morti, ma il patto era che dovesse farvi ritorno ogni sei mesi. Sembra, dalle frammentarie testimonianze che ci sono pervenute, che nel mondo sotterraneo si consumassero nuove nozze segrete tra Dioniso e Persefone durante le quali nasceva un fanciullo divino. A questo proposito è illuminante un frammento di Eraclito, che getta nuova luce sull’identità del dio del vino: “Se essi non allestissero il corteo in onore di Dioniso [le falloforie]  e non rivolgessero a lui il canto fallico, senza nessuna venerazione maneggerebbero oggetti venerabili.  Ma lo stesso dio è Ade e Dioniso, per il quale infuriano e si comportano come Baccanti”. – Eraclito – cit. da Plutarco: “Su Iside e Osiride”, 28.

Due erano sostanzialmente i modi di rievocare la morte del dio. Le Menadi in preda alla mania e al delirio dionisiaco erano solite fare a pezzi un cerbiatto o un capro che lo raffigurava e cibarsi della sua carne cruda; [4] lo stesso rito era praticato a Creta, durante le feste in onore di Dioniso, con un toro. Gli Orfici, invece, sacrificato il capro o il toro, ne bollivano le carni per poi arrostirle, proprio come avevano fatto i Titani con Dioniso [5].

Lo smembramento subito da Dioniso e la successiva ricostituzione del dio a partire dal cuore sono collegate con l’obiettivo principale delle iniziazioni dionisiache, che è anche l’obiettivo principale delle iniziazioni a tutte le grandi tradizioni dell’umanità: “riunire ciò che è disperso”, realizzare l’unità tra i contrari che si agitano nell’uomo, tra la sua parte Ombra e quella luminosa.

Ascoltiamo ancora due frammenti greci sul tema dello smembramento di Dioniso:

Ma tutte le altre parti create di Dioniso furono frantumate“, dice Orfeo, “dagli dèi separatori, mentre il solo cuore rimase indiviso per la previdenza di Atena … Solo infatti il cuore che vede lasciarono … e in sette lacerarono tutte le membra del fanciullo”, dice il Teologo riguardo ai Titani” – (Proclo, commento al Timeo)

“Dioniso infatti; quando ebbe posto l’immagine nello specchio, a quella tenne dietro, e così fu frantumato del tutto.  Ma Apollo lo raccoglie insieme e lo riconduce alla vita, essendo dio purificatore e veramente salvatore di Dioniso, e per questo viene celebrato come Dionisodote”. – Olimpiodoro

Lo specchio è simbolo di illusione, perché ciò che vediamo nello specchio è solo il riflesso della realtà, ma simultaneamente  il mondo è racchiuso dentro quello specchio e chi lo contempla può conoscerlo. Conoscenza e illusione, inganno e sapienza sono quindi le cifre di questo Dio. Il riflesso del dio nello specchio è la nostra corporeità, il nostro istinto vitale e noi e il nostro mondo, tra apparenza e divinità, necessità e gioco, siamo quello che il Dio vede ponendosi davanti allo specchio.

Un’altra figura che getta luce sulla figura di Dioniso è la sua compagna Arianna. Nel mito che la riguarda, come tutti sanno, Arianna aiuta Teseo ad uccidere il Minotauro, mezzo uomo e mezzo toro, salvando i sette fanciulli e le sette fanciulle che ogni anno il re di Creta Minosse doveva sacrificare al mostro. Arianna gli fornisce un filo che aiuta Teseo ad orientarsi nel labirinto al cui centro la attende il Minotauro.

Nei vasi funerari greci è spesso raffigurata una danza di uccelli palustri, anatre o gru che allude a una danza che veniva praticata ai solstizi nella Grecia antica, detta appunto “danza delle gru”. (si veda a questo proposito il libro “Nel labirinto” di Karoli Kerenij). I danzatori descrivevano una spirale che si avvolgeva sorreggendo una corda (il “filo di Arianna”), che rappresentava un raggio di sole. Questa parte della danza raffigurava il cammino del sole dal solstizio d’estate a quello invernale, quando le giornate si accorciano. Al centro della spirale li attendeva un uomo con la testa di toro. Aveva luogo una lotta tra colui che conduceva la danza e l’uomo-toro, sconfitto il quale, la danza riprendeva descrivendo una spirale che si allargava (questa fase si riferiva al solstizio di inverno, quando le giornate ricominciano ad allungarsi). Al termine della spirale si credeva che i danzatori si trasformassero in gru alate e volassero verso il giardino delle Esperidi, per cibarsi delle mele dell’immortalità. La danza rituale voleva rappresentare il destino che attende i defunti nel mondo dei morti: un viaggio all’interno di se stessi, nel labirinto dell’anima e il confronto con l’Ombra-Minotauro era la condizione perché le anime potessero godere dell’immortalità. L’iniziazione dionisiaca (e probabilmente anche quella ai Misteri eleusini) significava poter compiere questo viaggio da vivi…

Riprendendo il mito di Arianna, esso racconta che, dopo che Teseo esce dal labirinto porta con sé Arianna, ma la abbandona inspiegabilmente su un’isola deserta. Qui la fanciulla viene raggiunta da Dioniso, che ne fa la sua sposa. Una possibile chiave di lettura di questo mito, dal punto di vista delle iniziazioni, è che dopo che Teseo, l’animus, ha percorso il labirinto e affrontato l’Ombra, allo sposo umano subentra lo sposo divino.

3. La tragedia, la commedia e il mondo dei morti

Nella festa delle Brocche, celebrata durante le Anthesterie, gli uomini si cimentavano in gare di resistenza col vino e venivano scoperti i phitoi, Orci nei quali il mosto fermentava, perché i morti, risaliti dall’Oltretomba, potessero abbeverarsi o inebriarsi con l’odore del vino.

Durante le Dionisie si usava sacrificare animali ancora giovani (soprattutto capre nere e capri) agli avi e agli eroi per aprire un varco con il mondo dei morti e di Ade.

In quel periodo dovevano essere rappresentate nuove commedie e tragedie ed erano indetti concorsi per premiare la commedia e la tragedia giudicate migliori. [6]

Nei tempi più arcaici (cioè prima del VI secolo a. C.) la scena era dominata da un solo attore che incarnava Dioniso le sue vicende e la sua uccisione da parte dei Titani, oppure Penteo, “colui che soffre”, che in origine era il dio stesso e più tardi, nella tragedia classica, si trasformerà in un suo avversario, per ciò punito dalle Menadi.  In realtà tutti gli eroi e i progenitori mitici appartenevano a Dioniso e, agli inizi del teatro, le improvvisazioni canore e musicali dei poeti ne celebravano le gesta. Durante le feste Dionisie e Lenee la durata degli spettacoli poteva protrarsi per un giorno intero.

Secondo la tradizione, fu Tespi [7] il primo drammaturgo ad introdurre un attore mascherato al posto di colui che impersonava il capro (tragedia, tragodia, significa appunto “canto in onore del capro, animale sacro a Dioniso), rendendo palese, attraverso la varietà delle maschere, il nesso tra religione dionisiaca e venerazione per gli eroi.

Nella tragedia il ruolo del capro è ambivalente, perché se da un lato incarna il dio, dall’altro viene sacrificato proprio in quanto suo nemico, perché ama nutrirsi dell’uva sacra a Dioniso, ed il suo sangue ha la funzione di aprire un passaggio con il mondo sottile attraverso il quale antenati ed eroi, mascherati, possono comunicare ai mortali la loro eterna saggezza.

La commedia [8] (canto per il komos = danze e canti di bande di uomini vaganti, spesso travestiti da donna) ha inizio dalle danze e dai canti fallici. Anche la commedia, aveva il compito di stabilire un contatto con il mondo sottile ed ultraterreno. La commedia attraverso il riso, la tragedia attraverso il pianto.

Del resto, sia nel teatro di Dioniso ad Atene che nel teatro greco di Siracusa, esistevano gallerie sotto il piano dell’orchestra, munite di uscite dalle quali si credeva  apparissero le ombre dei morti evocate da sottoterra e sul tetto dell’edificio scenico era ricavata una piattaforma destinata alle epifanie delle divinità.

Dioniso, nato nel fuoco e dalla pira funeraria, era dunque il dio al quale erano sacre le rappresentazioni teatrali durante le quali gli attori, posseduti dal loro daimon e da forze sovrumane, gridavano e cantavano dietro le loro maschere verità terribili, che solo gli dei e gli spiriti potevano conoscere.

Il capro rappresentava Dioniso nella sua passione come vittima sacrificale e gli venivano attribuite le sofferenze degli eroi.  Eroi che appartenevano a Dioniso, dice Kerenyi, perché egli era la luce che li guidava nel loro destino, era l’eroe che i re si sforzavano di imitare. [9]

La struttura che le rappresentazioni teatrali assunsero in epoca classica ci svela che tipo di esperienza potesse essere, per uno spettatore del V secolo a. C., assistere ad una tragedia.

Anzitutto il ruolo della maschera.  La storia degli inizi del teatro greco è anche la storia di un progressivo nascondersi dell’attore (o degli attori) dietro la maschera, man mano che aumenta l’importanza del loro ruolo sulla scena: “Dapprima la biacca, poi la maschera leggera di lino, quindi quella lignea, sempre più complessa, fino alla policromia introdotta, pare, da Eschilo“.

Attraverso la maschera è un principio non-vivente a esprimersi.  Freddo e alieno perché immortale, può rivelare la sua spaventosa potenza solo nascondendosi dietro una maschera.

Sulla scena l’azione. Mentre l’attore incarna le gesta e le sofferenze degli eroi, “posseduto dal dio”, il coro rappresenta una diversa condizione della coscienza.  Il suo compito è a tratti quello di ammonire e consigliare i protagonisti o commentarne le vicende, a tratti quello di sottolineare il significato di ciò che accade agli occhi del pubblico.  Il coro funziona così da mediatore tra l’attore e lo spettatore. Scopo dichiarato delle rappresentazioni tragiche era il determinare nello spettatore la “catarsi”.

Gli eroi sacri a Dioniso sono condannati a un destino di sofferenza, sacrificio e morte.  Essi devono espiare e condurre fino in fondo tale destino per purificare la loro stirpe.

Ci si attende dagli spettatori della tragedia la “catarsi”, ossia che le vicende narrate possano in un primo momento produrre una identificazione con i protagonisti e in seguito, attraverso lo scioglimento del dramma, condurre a una accresciuta consapevolezza ed alla purificazione interiore.  Il coro, che introduce i protagonisti, dialoga con loro e ne commenta le vicende in modo impersonale ed equilibrato, rappresenta per gli spettatori lo strumento per straniarsi e distaccarsi dall’azione, cogliendone il senso più profondo.

Il Teatro antico prefigurava dunque un’esperienza di morte. “Per tutta l’età arcaica … il coro si identificò col pubblico o in qualche modo lo rappresentava [10]”.

Nei tempi più antichi le rappresentazioni teatrali erano dominate dalla presenza del coro, inizialmente formato da personaggi travestiti da satiri, e si svolgevano così: “Veniva tracciato un cerchio sul terreno, al cui centro si ergeva l’altare di Dioniso, un po’ spostato di fianco era montato un piccolo palco.  Davanti al cerchio trovavano posto le gradinate di legno per gli spettatori.

Già dalla disposizione appare chiaro che centro dello spettacolo non era il palco (skene) su cui stava l’attore, ma il cerchio in cui danzava e cantava il coro (l’orchestra). È l’azione del coro a costituire lo spettacolo vero e proprio.  Dal suo palco l’attore introduce invece l’azione, racconta quel che non può essere direttamente offerto alla vista degli spettatori e spiega anche, probabilmente, quel che il coro rappresenta o mima” [11]. Tuttavia, nell’evoluzione del teatro greco, una linea di tendenza generale appare chiara: il progressivo allargarsi dello spazio occupato nell’azione tragica dall’attore a spese del coro.

Torniamo ora al fine escatologico e salvifico che si proponevano le rappresentazioni teatrali. [12] Dioniso era invocato col nome di Soter o Salvatore. Fine ultimo della tragedia era, appunto, la catarsi, dopo lo stupore, lo spavento o il pianto, lo spettatore veniva trasformato dagli eventi a cui aveva assistito. (Dioniso, come Giove suo padre, era un dio delle metamorfosi).

La catarsi doveva condurre in ultima analisi lo spettatore, attraverso lo spettacolo delle sofferenze, del dolore e della morte degli Eroi, a una condizione di equilibrio, armonia, conoscenza di sé e percezione dei limiti posti all’uomo dalla Natura, dal Fato e dagli Dei.

A realizzare, insomma, i due detti che erano incisi sulla facciata del Tempio di Apollo a Delfi: “Conosci te stesso” e “Nulla di troppo“.

Chiediamoci ora se non ci sia un legame sottile tra i diversi aspetti di Dioniso che abbiamo esaminato fin qui: l’enthousiasmos e la scaturigine divina delle nostre pulsioni, il dio fallico e sposo mistico, il dio delle maschere e della tragedia, il dio che attende i mortali nelle dimore di Ade.

In realtà c’è anche un gioco di parole che riguarda il fallo in legno di fico,  l’oggetto mistico che veniva portato in processione durante le feste dionisiache, racchiuso in un setaccio per il grano, si tratta dell’assonanza tra le parole kradìa, “cuore” e krade, “albero di fico”. Per questo motivo l’albero del fico ed i suoi frutti erano sacri al dio e durante le stesse processioni venivano esibiti falli in legno di fico inghirlandati con fiori.

D’altro canto l’attore della commedia, spesso travestito da satiro, conserva per tutto il V sec. a. C. il segno della sua origine rituale, il fallo, che insieme con la maschera e le imbottiture, dovevano presentarlo deforme, indipendentemente dal ruolo del personaggio”.

Lo stesso aspetto itifallico avevano i bambolotti articolati che facevano parte dei giocattoli di Dioniso Zagreo, spesso rinvenuti nei corridoi funerari.

Nei misteri dionisiaci gli iniziati prendevano parte ad una cerimonia notturna durante la quale dovevano indossare pelli di cerbiatto e predisporre un cratere di vino dal quale attingevano.

Venivano quindi imbrattati con una mistura di argilla e paglia mentre dal buio emergeva la sacerdotessa, che portava una maschera da Gorgone, e, tra le urla dei presenti, venivano pronunciate le parole: “Sono sfuggito al male, ho trovato il meglio”.

È anche noto che le iniziazioni femminili culminavano con la contemplazione del contenuto di un liknon coperto che racchiudeva un fallo. Il giorno successivo alla cerimonia notturna di cui abbiamo parlato, il gruppo degli iniziati passava per le strade recando il liknon, che conteneva il fallo coperto da dolci e frutta.  Alcuni brandivano serpenti vivi e la gente era incoronata da finocchio e pioppo bianco.

In un’altra festa sacra a Dioniso, la festa delle falloforie, grandi falli venivano trasportati ed esibiti in pubblico.  Secondo Erodoto il paese originario delle falloforie era l’Egitto, dove falli erano portati in processione durante le feste in onore di Osiride.  Nei cortei egizi di cui parla Erodoto, le donne portavano in giro delle statue dotate di enormi falli i quali, grazie ad opportuni congegni, potevano muoversi. Riferimenti al fallo pervadono comunque tutta la sfera dionisiaca.

Durante le feste sacre a Dioniso si danzava la danza del labirinto, rappresentata sui vasi funerari come una danza di uccelli palustri, di anatre, cicogne o gru. Il termine greco per cicogna, Pelargos, è composto da due radici, peos e lar, termini che significano entrambi “fallo”, “elemento fecondatore” o “fuoco domestico”.

Non è inutile osservare che i nomi  con i quali venivano designati gli spiriti degli antenati e le potenze ancestrali del ghenos e del focolare nell’antica Roma, Lari e Penati, avevano anch’essi un carattere marcatamente fallico.

Falli eretti  di pietra comparivano spesso sui sepolcri come simboli delle forze generative primarie e sotterranee del ghenos e della stirpe.

La follia orgiastica e l’irruenza copulatoria delle Menadi non erano, secondo la mentalità greca, immorali, ma degne di venerazione e sante, perché si manifestavano sotto l’egida del dio che rappresentava simultaneamente anche l’amore sacro della coniuge per il marito, l’amore per il maschile ideale e alato e per il puro princìpio spirituale.

La sessualità veniva cioè vissuta secondo lo scopo per il quale essa era stata donata alle donne in quanto esseri viventi.

Il culto del dio era quindi perfettamente compatibile con lo stato di donna coniugata e rappresentava il tentativo di assoggettare le potenze scatenate e incontrollabili dell’eros e della vita, dopo averle evocate, per mezzo dei princìpi ordinatori del ritmo e della danza.

Le donne sacre a Dioniso erano sottoposte al precetto di castità e casta doveva essere la sacerdotessa o “Gherairà”, sposa del dio.

Pseudo-Demostene attribuisce a una sacerdotessa di Dioniso le parole: “Vivo santamente e sono pura e incontaminata da relazioni carnali con uomini e da ogni altra forma di impurità“.

Le due iniziazioni dionisiache (i piccoli ed i grandi Misteri) attendevano anche i morti nell’al di là e, in particolare, si riteneva che le persone morte in giovane età fossero chiamate a nozze dionisiache e che Eros-Dioniso-Ade rapisse le donne alla vita per unirsi a loro in nozze sotterranee.  Mentre il suono dei flauti dionisiaci accompagnava le cerimonie funebri, le giovani defunte promesse al dio dovevano trasformarsi in Arianna; e i giovani nello stesso Dioniso.

Terminiamo dicendo che, dal punto di vista dei greci Dioniso non era un dio legato al passato, ma un dio legato al futuro. Nella tragedia di Eschilo Il Prometeo incatenato, Prometeo predice infatti ad Hermes che il regno di Zeus verrà soppiantato da quello di Dioniso:

“Eppure Zeus, anche se è superbo, sarà meschino.  Si prepara nozze che lo rovesceranno dal suo trono, l’annienteranno.  E la maledizione che Crono gli lanciava rovinando dal seggio antico si farà in tutto vera.  Nessuno degli dei può rivelargli come sfuggire a questa sorte: io solo [13]. Io lo so, io so come. Riposi allora, forte del tuono di cui trema il cielo lanciando la sua folgore di fuoco.  Perché non basteranno tuono e folgore quando cadrà per sempre e senza gloria.

Da sé ora si prepara un avversario molto duro da vincere, un prodigio, e la sua fiamma sarà più che folgore, e la sua percossa sarà più che tuono … e allora (Zeus) imparerà se servire è altra cosa che regnare” … “Non esiste tormento né lusinga che mi induca a svelare il vero a Zeus se prima non mi libera dai ceppi infami. E lanci la sua fiamma nera, la sua candida neve ed i suoi tuoni, turbi, sconvolga tutto sulla terra:  Io non mi piegherò non dirò chi deve rovesciarlo dal potere”. Eschilo – Prometeo Incatenato

Viene spontaneo chiederci se il regno di cui parla Prometeo è quello segnato dall’avvento del cristianesimo oppure è ancora di là da venire…

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Note

1. Per una interpretazione degli affreschi della Villa dei Misteri nel senso indicato (ad es. Nemesi che frusta una delle quattro stagioni interpretata come solstizio invernale) cfr. il mio libro “Dioniso nei frammenti dello specchio”, ed. Irradiazioni, Roma 2007, capitolo 9. ^

2. Si tratta di un’asticella di legno legata ad una corda che veniva fatta roteare e produceva un cupo ronzio. Si riteneva che le anime dei morti che si fossero trovate nel cerchio descritto dall’asticella, vi sarebbero restate imprigionate. Si diceva anche che il suono del rombo, nel silenzio, annunciasse l’epifania di un dio.  (Cfr gli Oracoli Caldaici). ^

3. Il symbolon o formula rituale che ripetevano gli iniziati ai misteri di Dioniso e Sabazio consisteva in queste parole: “Il Toro è padre per il serpente, ed il serpente per il Toro”. Una delle epifanie di Dioniso era quella di un serpente crioforo, cioè delle corna di ariete, e durante le feste dionisiache si usava catturare serpenti (anche velenosi) che poi venivano portati in processione e fatti a pezzi da coloro che officiavano i riti. Le quattro forme assunte dal dio si riferivano probabilmente anche alle 4 stagioni dell’anno solare. ^

4. Questo, come abbiamo visto, fu il destino di Orfeo. Nelle “Baccanti” di Euripide la stessa sorte tocca a Penteo. Colpevole di aver gettato discredito sul culto dionisiaco, egli viene ucciso e divorato dalle Menadi in preda all’ebbrezza, tra le quali la sua stessa madre che non lo aveva riconosciuto. Viene infatti scambiato per un capretto. ^

5. Detienne sostiene (cfr. Dioniso e la pantera profumata, Laterza Roma-Bari 1983) che sia il fatto che le Menadi mangiassero carne cruda, sia il fatto che le carni del dio fossero prima bollite e poi arrostite dai Titani rappresentassero una evasione dal mondo degli uomini. Nel primo caso si sfugge dalla civiltà con il dilaniamento, l’omofagia e il desiderio di carne cruda, evadendo verso il basso, dalla parte degli animali. Nel secondo caso occorre tener presente che c’era presso i Greci la proibizione di cibarsi di carne che fosse stata prima bollita a poi arrostita e che era prescritto che queste due operazioni dovessero essere compiute in senso inverso. Il motivo di tale divieto era di tipo religioso ed era determinato dal fatto che, secondo la tradizione, quando Prometeo istituì il sacrificio violento degli animali in onore degli dei, stabilì che le bestie sacrificate dovessero essere prima arrostite e poi bollite (la questione viene affrontata da Aristotele in uno dei Problemi). Invertire l’ordine delle operazioni significava, sostiene Detienne, rifiutare la civiltà instaurata dal Sacrificio Prometeico.
C’è però un’altra interpretazione possibile, non necessariamente antitetica alle precedenti: nel simbolismo mistico dei Misteri, l’acqua era il segno tangibile di un principio sottile e invisibile legato alla morte, alla dissoluzione, alla purificazione ed alla rigenerazione, mentre il fuoco, per il fatto che trasmuta ciò che viene sottoposto alla sua azione con il calore e rende percepibili le forme con la luminosità, era assimilato al principio spirituale ed aureo (fu Dioniso a conferire a Mida il potere di trasformare tutto in oro), che trasforma l’essere e lo individua. La bollitura nell’acqua e la cottura sul fuoco potevano dunque rappresentare l’insieme dei riti di passaggio che dovevano essere superati dall’iniziato, identificato con il capro e con Dioniso, chiamato prima a regredire allo stato prenatale e a subire una morte e uno smembramento simbolico, per poi rinascere allo spirito. ^

6. G. Colli (op. cit. introd. Vol. I) ritiene che rappresentazioni simili a quelle che si tenevano durante le Dionisie fossero recitate nel segreto dei Templi durante i misteri di Demetra, Persefone e Dioniso. ^

7. Protina fu invece l’autore del distacco tra tragedia e dramma satiresco. Quest’ultimo venne rappresentato in seguito dopo le tragedie per risollevare gli spettatori dopo la catarsi. Solone rimproverava a Tespi, la rappresentazione teatrale, la hypokrisis, in quanto reale evocazione che richiamava fisicamente i morti fuori dal mondo sotterraneo. ^

8. Scherzando i commediografi greci definivano il loro genere Trygodia, ossia “canto in onore delle fecce”. Tryx era la feccia del vino con cui ci si tingeva il viso. ^

9. Quando gli ateniesi non gradivano un dramma dicevano: “Questo non ha nulla a che fare con Dioniso” (cfr. K. Kerenyi, Dioniso pag. 302). ^

10. Cfr. M. Vegetti, op. cit. pagg. 134-136 (L’Attore di D. Lanza). ^

11. Ibid., pag. 134-136. ^

12. Dioniso era invocato con il nome di Soter, “Salvatore”. Sembra che rappresentazioni molto simili a quelle tragiche fossero mostrate agli iniziati durante i Misteri Eleusini e che Eschilo fosse stato condannato per aver svelato questo segreto in una delle sue tragedie. (Cfr. G. Colli, La Sapienza Greca, Milano 1978, Introduzione). ^

13. Prometeo profetizza la caduta di Zeus (che, a sua volta, ha già detronizzato Crono dopo la guerra contro i Titani) e il futuro regno di suo figlio Dioniso, ma non vuole rivelarne il nome. Se Zeus è il dio dell’Ordine esterno e del Macrocosmo, Dioniso regna sull’ordine interno all’uomo, un microcosmo nel quale l’intero universo si rispecchia. ^