Alla dea Cibele, oltre al tempio per lei elevato sull’acropoli di Roma fu anche consacrato, nel 27 a.C., un’altro tempio, l’unico dei templi pagani rimasto intatto fino ad oggi: quello del Pantheon.
La dea Cibele, mito e complesso /2
di Mario Bulletti
Un ponte antropologico dalla preistoria ai nostri tempi.
Sommario: 1. I presupposti della postanalisi – 2. Breve introduzione al metodo postanalitico – 3. Gli antefatti – 4. Analogie fra il caso A con quello dei vissuti freudiani – 5. L’esiodea Gaia e la frigia Cibele: due espressioni ambivalenti del mito della Grande Madre – 6. I seicento anni del culto di Cibele a Roma – 7. Il tempio romano del Pantheon e Cibele – 8. L’analogia distorta fra il mito di Cibele e la teologia del cristianesimo – 9. Cibele e la psicosi – 10. La Cibele dell’indagine post analitica – 11. Dal pacifico matriarcato monoteista all’aggressivo patriarcato politeista pagano – Appendice
6. I seicento anni del culto di Cibele a Roma
Per ciò che riguarda l’introduzione della Grande Madre Cibele nel mondo romano, gli avvenimenti furono del tutto singolari. La dea Cibele ebbe la sua sede più degna a partire dal 204 a.C. in un tempio per lei appositamente elevato nell’acropoli della Roma più sacra, quella quadrata, fondata da Romolo sul colle Palatino. Andando a ritroso di un anno nel tempo, ossia nel 205 a.C., potremo collocare la narrazione dell’arrivo della dea a Roma. Lo storico Tito Livio ci testimonia gli antefatti relativi al 4 aprile di quell’anno, data in cui, la pietra nera, simbolo della dea: “[…] fu deposta nel tempio della dea Vittoria che è sul Palatino. Quel giorno fu dichiarato festivo. Una folla di popolo portò doni sul Palatino, dove furono celebrati con un lettisternio dei ludi, detti Megalesi” [46]. Il simulacro della Magna Mater, Grande Madre, fu portato a Roma, sempre secondo Tito Livio, poiché, durante il periodo delle guerre puniche, “era stata trovata nei libri sibillini una profezia che diceva che, quando un nemico venuto da terre straniere avesse portato guerra in Italia, si sarebbe potuto cacciarlo e vincerlo se fosse stata recata a Roma da Pessinunte la statua della Madre Idea. Questo vaticinio trovato dai decemviri influì sul senato, tanto più in quanto gli ambasciatori che avevano portato doni a Delfo avevano riferito che, quando essi avevano fatto sacrifici ad Apollo Pizio, l’esame delle viscere aveva dato esito favorevole ed era venuto dall’oracolo un responso che diceva che era prossima per il popolo romano una vittoria molto più grande di quella dalla cui preda erano venuti i doni che essi portavano” [47]. Da allora in poi, la pietra nera della dea rimarrà indisturbata sul tempio del colle Palatino dal 204 a.C., fino a quando l’editto dell’imperatore romano Teodosio I (379-395 d.C.), abolirà, nel 392 d.C., tutti i culti pagani. Perciò si avrà il dato di fatto ben evidente di un arco temporale di permanenza della dea Cibele che si estende per 597 anni. Se consideriamo la data della fondazione di Roma, nel 753 a.C., e la fine del suo impero con la deposizione dell’imperatore Romolo Augustolo nel 476 d.C., avremo un arco di 1229 anni che corrisponde a poco più del doppio del regno di Cibele, nel suo trono sul colle Palatino. Quindi la dea frigia impose il suo culto nella capitale dell’impero nel periodo in cui iniziò la grande espansione di Roma accompagnando la città eterna fin verso la fine del suo declino. Potremo, quindi, affermare che Roma, come Attis, prese vita e forza dalla dea, al nascere del suo vero potere, fino all’inizio della sua decadenza e morte. Ciò reduplica sul piano storico la sequenza concepimento, nascita, morte e resurrezione agita dalla dea sul figlio Attis. Una morte “ideale” che sanciva la fine del paganesimo a cui farà seguito l’incontestabile resurrezione “ideale” inscrivibile nel cristianesimo.
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46. T. Livii, Ab urbe condita, XXIX, 14. (torna al testo)
47. T. Livii, Ab urbe condita, XXIX, 10. (torna al testo)
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7. Il tempio romano del Pantheon e Cibele
Alla dea Cibele, oltre al tempio per lei elevato sull’acropoli di Roma fu anche consacrato, nel 27 a.C., un’altro tempio, l’unico dei templi pagani rimasto intatto fino ad oggi: quello del Pantheon, e il professor Umberto Cordier che ci informa sugli antefatti: “Secondo una leggenda, Agrippa fu ispirato alla costruzione del Pantheon da un’apparizione della dea Cibele, che gli promise aiuto in una guerra contro la Persia in cambio della costruzione di un tempio magnifico, di cui gli mostrò l’immagine” [48]. L’etimologia del nome è ben chiara. Infatti secondo l’illustre linguista Giacomo Devoto [49], Pantheon è: “forma sostantivata della formula greca pàntheon (hierón) ‘tempio (hierón) di tutti (pan-) gli dei (-theion)‘ ” [50]. In questo tempio infatti, come ci evidenzia ancora Umberto Cordier, vi sono “sette grandi nicchioni, alternativamente rettangolari e circolari, che contenevano in origine le statue delle sette divinità planetarie”. Tali divinità planetarie, erano anche dette “reggenti”. Ad esse venivano associate le ore di ogni giorno. Attraverso il computo del susseguirsi delle stesse, venne determinata la sequenza dei giorni che ritroviamo ancora oggi nella settimana attuale. Alfredo Cattabiani ci informa al proposito che: “Si attribuiva la prima ora, quella del mattino, al pianeta più lontano, Saturno, e le altre gradatamente ai pianeti meno lontani, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, per terminare con la Luna, il più vicino” [51]. Questa successione di pianeti definirà la geometria del tempo della nostra settimana. Il giorno di Saturno diverrà per noi il sabato, quello del Sole la domenica e poi ancora avremo che dalla Luna avrà origine il lunedì, da Marte il martedì, da Mercurio il mercoledì, da Giove il giovedì e infine da Venere il venerdì. Quindi palesemente la dea Cibele sovraintendeva alla dimensione cronologica del tempo che da ogni ora si estendeva alla settimana per poi fluire, senza interruzione, al di là dei mesi e degli anni. Fino ad arrivare ai nostri tempi, A questa vera e propria trascendenza del fluire cronologico, ritmato dai pianeti dell’universo generati dalla dea ed inglobati nel ventre uterino del suo tempio, si aggiunge un’altra evidenza: quella dello hieros gamos o del matrimonio sacro tra cielo e terra. Questa fusione veniva favorita e resa evidente proprio grazie all’artefatto architettonico della cupola a calotta semisferica alla cui sommità fu praticato un foro circolare a cielo aperto del diametro di 9 metri. Questa grande apertura con il cielo aveva un significato ben evidente: non esistevano diaframmi od ostacoli fra la dimensione terrena e quella dell’urano celeste, per cui il Pantheon si presentava come l’utero terreno sempre aperto alla congiunzione fecondante con il cielo esattamente come nella figurazione mitologica dello hieros gamos fra Gea ed Urano. Nel tempio pagano del Pantheon, di fatto, si realizzava simbolicamente l’amplesso finalizzato al concepimento, fra magna mater terrena e l’universo etereo. Metaforicamente potremmo dire dell’anima eterea con il corpo terreno. Una congiunzione che ci rinvia al concepimento del tempo, presente anche nell’epifania esiodea di Crono, conseguente, come appena accennato, al matrimonio sacro fra la terra Gaia con il figlio cielo Urano. Quindi il Pantheon, seguendo passo per passo l’iterazione ideale, è il luogo sacro dove la terra, generando il cielo e poi unendosi con esso, dà vita al tempo, ed anche il luogo dove la terra od il corpo, generando l’anima e fondendosi poi con essa, dà vita all’essenza umana. Questa diade simbolica immanente e nel contempo segreta, del tempo e dell’essenza umana, celata nel simbolismo del tempio, non appartiene, però, alla Mater deum patriarcale ma bensì alla pacifica Grande Dea della primigenia religione monoteista matriarcale. È un relitto concettuale che ripropone caratteristiche specifiche concepite all’interno del mito riguardante la prima divinità adorata dall’essere umano. Un primato che vedrà ogni altro culto nomenclabile solo come successivo o secondo, in ordine di sequenza, a quello monoteista della Grande Dea.
Le coincidenze concettuali fra Gaia-Cibele e la Grande Dea sono immediatamente identificabili nella definizione che ci viene fornita dal paleoantropologo Terence Meaden: “Un elemento comune nei miti della creazione e dei riti annuali, che celebravano il rinnovamento del mondo, erano le Nozze Cosmiche o le Nozze Sacre (l’unione delle divinità), che garantivano l’eterno processo della creazione e della continuazione dell’universo. Assolutamente evidenti erano le nozze celesti, quelle fra le divinità che rappresentavano il cielo e la terra, oppure il sole e la luna” [52]. Nel Pantheon si ripeteva quella congiunzione, quello hieros gamos, fra cielo e terra che però era già oggetto di culto nell’era neolitica. Un esempio fra tanti ci viene fornito dal tempio di Gavrinis, luogo di adorazione della Grande Dea, già quattro millenni prima della nostra era e dell’edificazione del Pantheon. Questo santuario, è situato sull’isola di Gavrinis, al largo della costa della Bretagna, eretto sulla punta estrema di una penisola, di fronte all’Oceano Atlantico. Ciò che dimostra la concettualizzazione dello hieros gamos fra cielo e terra, più precisamente fra i pianeti Sole Luna con l’utero della Grande Dea, viene reso nel concreto attraverso l’imperniarsi spazio temporale ben preciso di una pietra, di quarzo bianco, con un orientamento ben particolare. Ci informa al proposito Terence Meaden: “L’entrata e la galleria [del tempio di Gavrinis] sono state orientate in maniera tale che questa pietra potesse essere illuminata al sorgere della luna nel suo punto estremo a sud, condizione che si verifica ogni diciotto anni, e anche al sorgere del sole nel solstizio d’inverno ogni anno” [53]. Quindi si aveva un congiungimento, all’interno del talamo uterino della Grande Dea, con due pianeti diversi che scandivano, esattamente ed inequivocabilmente, la cronologia diurna e notturna del nostro universo. Una scansione che si iterava di anno in anno ossia di nascita in nascita ed ogni diciotto anni ossia di generazione in generazione. In quella terrena pietra di quarzo bianco fecondata dal cielo diurno del Sole e dal cielo notturno della Luna nel momento stesso in cui questi due cieli divenivano un tutt’uno avveniva una rappresentazione simbolica ben precisa. Una rappresentazione simbolica che vedeva il generarsi della vita in ogni anno. Di fatto è questo il periodo minimo di tempo che può intercorrere da un parto all’altro per ogni donna. Analogamente i diciotto anni rappresentavano il periodo minimo e massimo della vita media di ogni generazione definendo in tal modo la scansione del tempo della vita, della morte e della rigenerazione. Quindi il simbolismo del concepimento della vita e del tempo ed il susseguirsi ritmato degli stessi nel loro rigenerarsi era ben presente nel mondo matriarcale monoteista già molti millenni prima della nascita del matriarcato androcratico di Gaia-Cibele. Nello specifico di queste due matriarche androcratiche, Gaia concepisce il tempo con un solo figlio, ossia Urano, mentre Cibele concepisce il tempo con le sette divinità reggenti di cui, in quanto Mater deum, è la Magna Mater, la Grande Madre. Perciò si avrà palesemente, per quest’ultima, l’evidenza di un rapporto plurimo od orgiastico, etero ed omosessuale. Un matrimonio sacro che vedrà la congiunzione nell’utero tempio della Grande Madre, spalancato verso il cielo, non solo tra i figli di sesso maschile ma anche fra la Luna e Venere, di sesso femminile. Quegli stessi sette figli che, in quanto pianeti, gravitavano nel cielo etereo per congiungersi con i loro corrispondenti terreni, rappresentati simbolicamente dalle sette statue delle divinità a loro corrispondenti. La filogenesi concettuale di questo plurimo matrimonio sacro si rende evidente nella precedente liturgia della Grande Dea. Infatti lo scandirsi iniziale del tempo, ossia il concepimento del tempo, veniva sancito, anche nel Pantheon, attraverso la connessione epifanica del sole e della luna, come, in precedenza, nel tempio di Gavrinis. Non a caso, secondo quanto ci fa notare Umberto Cordier, nel Pantheon: “Il foro della sommità è il Sole che, infatti, agli equinozi proietta, sempre a mezzodì, un raggio di luce che taglia il cornicione proprio come l’astro in quei giorni taglia l’equatore celeste” [54]. Per ciò che invece riguarda la luna, leggeremo di seguito: “La struttura è orientata con uno scarto di 5°, pari all’obliquità dell’orbita lunare, come il Palazzo della Ragione di Padova e Castel del Monte di Andria”. In sostanza nel tempio romano si volevano ottenere le stesse risultanti di congiunzione solilunare analoghe a quelle agite nel tempio bretone della Grande Dea. Per tal motivo si può affermare che nel culto di Gaia e Cibele, escludendo chiaramente la liturgia evirante, fossero presenti dei basilari tratti simbolici e cultuali mutuati dalla primigenia religione matriarcale. Tratti simbolici che però in epoca anteriore al 10.000 a.C., vedevano il Sole e la Luna essere esclusivamente di sesso femminile poiché espressione partenogenetica della Grande Dea. Un attributo, quello della femminilità, che la Grande Dea estendeva a tutto l’universo da Lei generato con uniformità di genere a lei propria. Per tal motivo ogni concepimento era conseguente a quell’autofecondarsi da sé che avveniva in tutto il percepibile ed il non percepito presente nell’universo. Un’autofecondarsi da sé che si richiama e ci richiama alla riproduzione protozoica per autoscissione. Un modello riproduttivo che si esprime attraverso una concatenazione infinita di autoscissioni che, nel momento in cui inizia a perdere la sua vitalità, si ravviva grazie allo scambio di sostanze interne che si attua fra queste cellule. Uno scambio di sostanze che avviene fra cellule identiche alla cellula madre per cui questa singolare pratica ripropone quel fecondarsi da sé, operato, nella prassi concettuale, nella liturgia dalla Grande Dea. Di conseguenza, da questa partenogenesi del monoteismo matriarcale, si avrà poi, sempre all’interno del matriarcato monoteista, l’evoluzione concettuale dello hieros gamos eterosessuale. Tale rivoluzione poté avvenire grazie alla presa di coscienza della paternità acquisita dall’uomo. Ci informa al proposito l’antropologa inglese Reay Tannahill: “Nulla ci fa supporre che l’uomo, neppure lontanamente, fosse conscio del proprio ruolo fisico nell’atto del concepimento. Sembra che questa consapevolezza si sia rivelata solo con l’avvento dell’agricoltura poco dopo il 10.000 a.C.: essa certo ebbe l’effetto di rafforzare l’ego maschile” [55]. La partenogenia rimarrà però fissata nella mitologia del collettivo; una fissazione che si può facilmente intravedere nei reliquati concettuali espressi nel mito. Infatti nel traslato evolutivo della partenogenesi si avrà un matrimonio tra madre e figlio, nella fattispecie fra Gaia e Urano, nel quale il figlio maschio non è altro che il frutto della partenogenesi materna. Con Cibele anche le divinità reggenti sono un reliquato concettuale della partenogenesi del matriarcato monoteista della Grande Dea. Un reliquato che per estensione ingloba non solo l’insieme dei figli di sesso maschile ma anche quelli di sesso femminile. Un sesso femminile espresso nell’endiadi ideale e carnale della dea Luna e della dea Venere. In sostanza, con il matriarcato monoteista, il concepimento è solo frutto della partenogenesi mentre, nel politeismo androcratico, il femminino viene messo in minoranza pur conservando “la matriarca”, saldamente nelle proprie mani, ogni potere ideale.
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48. U. Cordier, Guida ai luoghi misteriosi d’Italia, Piemme, Casale Monferrato, (Al), 1997, p .330. (torna al testo)
49. G. Devoto (Genova 1897-Firenze 1974), fu uno dei massimi esponenti del novecento, Presidente dell’Accademia della Crusca (1963). (torna al testo)
50. G. Devoto, Dizionario Etimologico, F. Le Monnier, Firenze, 1989, p. 301. (torna al testo)
51. A. Cattabiani, Calendario, Rusconi Milano, 1989, p. 32. (torna al testo)
52. T. Meaden, Stonehenge – il segreto del solstizio, CDE, Milano, 1998, p. 63. (torna al testo)
53. T. Meaden, Stonehenge – il segreto del solstizio, CDE, Milano, 1998, p. 43. (torna al testo)
54. U. Cordier, Guida ai luoghi misteriosi d’Italia, Piemme, Casale Monferrato, (Al), 1997, p. 329. (torna al testo)
55. R. Tannahill, Storia dei costumi sessuali, Rizzoli, Milano, 1985, p .5. (torna al testo)
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8. L’analogia distorta fra il mito di Cibele e la teologia del cristianesimo
Risalendo ad epoche a noi più vicine, il Pantheon, unitamente ai suoi significanti più reconditi, verrà donato intorno all’anno 608 dall’imperatore romano d’Oriente Foca (602-610) a Papa Bonifacio IV che: “Guardava con desiderio quel capolavoro dell’architettura antica che sembrava possedere tutti i requisiti di una chiesa cristiana” [56]. Il tempio pagano sarà consacrato a chiesa cristiana il 13 maggio del 609, in onore di S. Maria ad Martyres. Mille anni dopo, il corredo bronzeo parietale posto all’interno di questo tempio verrà “barbaramente” fatto fondere da Papa Urbano VIII Barberini ed utilizzato dal Bernini per costruire il baldacchino di San Pietro e cannoni per Castel S. Angelo. In quell’occasione, sulla famosa “statua parlante” di Pasquino venne trovato, ben a ragione, un cartello satirico che diceva in latino: quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini ossia ciò che non fecero i barbari, fecero i Barberini. Sull’utilizzo di quel bronzo, usato per realizzare il baldacchino di San Pietro, ci informa l’illustre storico dell’arte Ennio Francia: “Iniziata nel 1624 e terminata nel 1633, questa grandiosa opera fu commissionata all’artista da papa Urbano VIII Barberini: allo stemma del suo casato si riferiscono le api che, sparse dappertutto, formano un motivo decorativo. Sotto il Baldacchino è l’altare papale che si affaccia sulla Confessione” [57]. Inoltre, per la maggior precisione dei particolari: “le quattro colonne vitinee, in bronzo dorato, alte ben 20 m, sostengono un baldacchino, pure in bronzo dorato, dal quale scendono frange e nappe a imitazione dei baldacchini portatili” [58]. Tutto ciò mette in estrema evidenza i legami topici esistenti fra il culto di Cibele ed il culto cristiano, delineandone in un certo modo la continuità ideale comune. Nei fatti il legame fra la basilica di S. Pietro, topicamente centro del cattolicesimo, con il culto di Cibele ed Attis, si rivela ancora più stretto grazie ai reperti archeologici ritrovati in un altro santuario di Cibele, denominato Phrygianum, situato, proprio topicamente, nell’area vaticana. Infatti, come ci informa Renato Del Ponte: “Nel santuario della Grande Madre al Phrygianum – oggi sotto le fondamenta di San Pietro – i dati epigrafici delle iscrizioni commemorative ci parlano di riti effettuati ininterrottamente almeno sino al 390” [59]. Ai legami topici, ora identificati nel loro essere comuni, tra Pantheon e Phrygianum, con la chiesa di S. Maria ad Martyres e la basilica di S. Pietro, bisogna aggiungere quelli cultuali. Legami cultuali esistenti, in vero od in apparenza, fra la “Mater deum” Cibele ed il figlio Attis con la “Mater Dei” Maria ed il figlio Gesù. A quest’ultima analogia, che è del resto impossibile sostenere, poiché interviene fra personaggi inesistenti e personaggi storicamente esistiti, fece ben presto seguito un aspro conflitto religioso. Ci aggiorna al proposito l’antropologo James Frazer: “Sembra, infatti, secondo la testimonianza di un anonimo cristiano che scriveva nel secolo IV della nostra era, che tanto i cristiani che i pagani erano colpiti dalla sorprendente coincidenza fra la morte e la risurrezione delle loro rispettive divinità, e che questa coincidenza era oggetto di aspre controversie fra i fedeli delle due religioni rivali: i pagani pretendevano che la risurrezione di Cristo era una imitazione di quella di Attis; i cristiani asserivano con egual calore che la risurrezione di Attis era una contraffazione diabolica di quella di Cristo. In queste dispute, non sempre cortesi, i pagani avevano quel che a un osservatore superficiale potrebbe sembrare un grande vantaggio: poter mostrare, cioè, che il loro dio era il più antico, e quindi probabilmente non era una contraffazione, poiché come regola generale l’originale è anteriore alla copia. Questa debole argomentazione i cristiani la respingevano facilmente. Essi ammettevano infatti che secondo un ordine puramente cronologico Cristo era la divinità più recente, ma dimostravano trionfalmente la sua reale priorità, accusando la malizia di Satana, che in una occasione così importante aveva superato se stesso invertendo l’ordine usuale della natura.” [60] Questo raffronto alquanto infelice proposto da James Frazer non evidenzia il fatto che la nascita del Cristo non è altro che il confermarsi di ciò che già molto tempo prima della comparsa del mito di Attis, veniva preannunciato in una serie di innumerevoli citazioni all’interno dell’antico testamento. Inoltre ogni funambolismo retorico pro Cibele, perde senso nel momento stesso in cui la realtà storica del cristianesimo e quella immaginaria di Attis vengono messe a confronto fra di loro. È come operare un paragone fra esistente ed inesistente o fra reale ed immaginario. Un immaginario frutto però di una allucinazione delirante. Un reale ed un delirio che si ripresentano singolarmente altalenanti fra di loro. Infatti, per ciò che riguarda la liturgia relativa al mito di Cibele ed Attis con quella cristiana dobbiamo segnalare ulteriori coincidenze. Coincidenze di cui la prima è di carattere cronologico. Il dio Attis risorgeva, tre giorni dopo la sua morte ogni anno il 25 marzo. Anche la resurrezione del dio cristiano sembra che sia stata festeggiata nella stessa data. Ci precisa al merito Alfredo Cattabiani: “Secondo sant’Agostino e San Cipriano, che registravano una tradizione diffusa fin dal protocristianesimo, la prima Pasqua cristiana sarebbe caduta il 25 marzo, data che inglobava anche la creazione del mondo e l’incarnazione del Verbo con l’Annunciazione” [61]. Quindi il Verbo si sarebbe incarnato nel giorno stesso in cui avvenne la sua resurrezione ossia il 25 marzo. In tal modo si ha la coincidenza di due epifanie, quella dell’incarnazione umana e quella della resurrezione divina, in una stessa epifania cronologica. A tutti gli effetti la datazione del 25 marzo non era univoca all’interno della Chiesa. Infatti nella realtà documentale si riscontra che, per ciò che riguarda la dibattuta questione della data della ricorrenza pasquale, la Pasqua stessa veniva: “Celebrata in tempi diversi secondo antiche tradizioni delle singole Chiese” [62]. Quindi nell’impero romano, la ricorrenza del 25 marzo, non essendo riconosciuta da tutte le Chiese, non poteva essere considerata come canonica ed univoca. A proposito di questa vexata questio, proprio nel concilio tenuto a Nicea a partire dal mese di maggio a quello di giugno dell’anno 325, verrà stabilito il criterio per la nuova datazione della ricorrenza pasquale valido a tutt’oggi [63]. Allo stesso tempo, in quel concilio, venne anche operato un netto distinguo per ciò che riguardava il rapporto con gli accoliti del culto di Cibele ed Attis. Infatti, nell’elenco dei canoni sanciti, leggeremo ciò che venne stabilito a proposito di: “quelli che si mutilano o permettono agli altri di farlo su di loro”, nella specifica leggeremo proprio nel primo canone: “Se qualcuno è stato mutilato dai medici per una malattia o menomato dai barbari, può restare nel clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è evirato da sé, costui, se appartiene al clero, conviene che ne sia escluso e in futuro nessuno che abbia agito così sia ordinato. È evidente, che quello che è stato detto riguarda coloro che deliberatamente compiono ciò e osano mutilarsi; se poi qualcuno fosse stato evirato dai barbari o dai propri padroni, ma fosse degno sotto gli altri aspetti, i canoni lo ammettono nel clero” [64]. Appare ben evidente che il riferimento a coloro che osano mutilarsi si riferisce ai fedeli del culto di Cibele ed Attis. Il distinguo nei confronti degli stessi non era solo di carattere morale ma anche dottrinale, viste le coincidenze riguardanti l’evento rivelato della resurrezione e della salvazione. Un mistero che coinvolgerà non solo il dio Attis ma anche i suoi credenti dopo la loro morte. Questa concettualizzazione, però, si deve sempre al recupero dei reliquati cultuali legati al mito monoteista primigenio della Grande Dea. Tale affermazione si rivela, nella sua evidenza, fra la molteplicità dei miti, attraverso la redazione del paleoantropologo Terence Meaden: “Nell’epoca megalitica la divinità femminile era onnipotente. Ella era l’oggetto dell’adorazione che condusse gli uomini a muovere pietre e montagne, a erigere templi e santuari in suo onore. Ella era la Grande Dea. Come prodotto della natura, ella simboleggiava la natura in tutti i suoi aspetti. Suo era il ciclo della vita da cui nascevano gli esseri viventi dalla terra, e che alla terra tornavano al momento della morte per rinascere nuovamente” [65]. Quindi nascita, morte e rinascita nella loro sequenza concettuale, anche se logicamente diversificata nelle differenti liturgie, si itinerano dalla preistoria più antica per giungere fino a noi passando attraverso il culto di Attis. Ci informa sui riti relativi a quest’ultimo, l’eminente antropologo James Frazer: “Una luce squarciava improvvisamente le tenebre; la tomba s’era aperta: il dio s’era levato tra i morti; e mentre il sacerdote toccava le labbra degli adoratori piangenti con del balsamo, sussurrava loro dolcemente la buona novella della salvazione. La resurrezione del dio era accolta dai discepoli come una promessa che anche loro avrebbero trionfato sopra la corruzione della tomba.” [66]
La serie di analogie esistenti fra il culto di Attis e quello cristiano divenne motivo di forte conflittualità, a tutt’oggi causa di rimozione [67]. Una rimozione che però non riguarda il sicuro credo del teologo, che rimane giustamente indifferente allo psicotico culto cibelico, ma che invece mette sorprendentemente in grave difficoltà un certo intellettuale laico. Un laico che contrasta con vigore la messa in evidenza del culto di Cibele ed Attis legando in tal modo, secondo un paradosso inconcepibile, la psicopatologia del culto cibelico alla teologia cristiana. Questo laico compie un errore madornale poiché non si rende conto che il cristianesimo non ha a che vedere con il delirante culto di Cibele. Perciò, al contrario di questi intellettuali laici, la postanalisi, evidenziando la gravità della psicopatologia cibelica, si trova in pieno accordo con il giudizio magistrale del teologo che vede nel culto cibelico la più esplicita espressione della “malizia di Satana” (Cifr. G. Frazer). Infatti l’analogia dialettica fra la nomenclatura psicotica e quella satanica si mostra chiaramente in tutto il suo parallelismo sinottico.
Ciò che per il postanalista è l’espressione della più grave psicopatologia, per il teologo è l’espressione più intensa del male diabolico. Attualmente, quello che si presenta come evidente è l’oblio completo della legenda di Cibele ed Attis. Un oblio che dimostra anche, in sé e per sé, l’inconsistenza esistente fra il confronto di un mito leggendario con quello della teologia, che si configura nella realtà storica del cristianesimo. Se esiste qualche coincidenza ideale, la potremmo rilevare, semmai, fra la Grande Dea pacifica e benefica attraverso il cardine concettuale dell’amore, sul quale si impernia il cristianesimo. Un amore, che al contrario è denegato, ancor prima del concepimento dell’essere umano, nella diabolica psicosi del culto cibelico che ritroviamo all’interno del complesso ad esso legato. Quindi l’alterità concettuale tra mito e religione si rivela pienamente: non può esistere legame fra Cibele e la storica testimonianza evangelica. È proprio la raggiunta consapevolezza e coscienza di tale inconsistenza che dà ragione al fatto che quel conflitto non avesse, e non possa avere, più ragione di esistere.
Ci siamo soffermati su questo punto poiché, nel momento stesso in cui l’indagine postanalitica ha messo in luce il complesso di Cibele, ha dovuto lottare contro una forte resistenza da parte di certi intellettuali laici. Una resistenza che però, al contrario, non è mai stata riscontrata in ambienti cattolici nei quali, la teorizzazione e la divulgazione del complesso in questione, è stata invece sollecitata. Anche l’antropologo Alfredo Cattabiani si conforma su tale linea concettuale. Scrive al proposito: “Di fronte a queste somiglianze con i riti pasquali si sarebbe tentati di parlare, come fece Simone Weil, di un antico testamento pagano destinato ad essere illuminato e purificato dalla Rivelazione di Cristo” [68]. Un antico testamento che vediamo legarsi con quello del pacifico matriarcato primigenio, attraverso l’universalità dell’amore.
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56. C. Rendina, I Papi, Newton Compton, Roma, 1983, p. 170. (torna al testo)
57. E. Francia, La Basilica di S. Pietro, De Agostini, Novara, 1983, p. 41. (torna al testo)
58. E. Francia, La Basilica di S. Pietro, De Agostini, Novara, 1983, p. 34. (torna al testo)
59. R. Del Ponte, La religione dei romani, Rusconi, Milano, 1992, pp. 262, 263.
“Fra il 382 ed il 391 (di fatto sino al 394) si vivrà a Roma una situazione veramente insolita. Non esiste più culto di Stato, ma i collegi sacerdotali continuano a sussistere e ad officiare i loro riti: le spese sono sopperite dall’ingente patrimonio delle famiglie più ragguardevoli dell’aristocrazia senatoria. Nel santuario della Grande Madre al Phrygianum – oggi sotto le fondamenta di San Pietro – i dati epigrafici delle iscrizioni commemorative ci parlano di riti effettuati ininterrottamente almeno sino al 390”. (torna al testo)
60. J. Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri, Milano, 1990, XXXVII. Religioni orientali in Occidente, vol. II, pp. 565, 566. (torna al testo)
61. A. Cattabiani, Calendario, Rusconi Milano, 1989, pp. 163, 164. (torna al testo)
62. R.Aubert-G.Fedalto-D.Quaglioni, Storia dei Concili, San Paolo, Milano, 1995, p. 15. (torna al testo)
63. Eusebio Di Cesarea, Storia ecclesiastica e i Martiri della Palestina, trad. e note di G. Del Ton, Roma-New York 1964, 5,16, 5,23,24: pp. 384ss, 408ss. (torna al testo)
64. R.Aubert-G.Fedalto-D.Quaglioni, Storia dei Concili, San Paolo, Milano,1995, pp. 277-278. (torna al testo)
65. T. Meaden, Stonenghe, Armenia-CDE, Milano, 1998, pp. 20,21. (torna al testo)
66. J. Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri, Milano, 1973, XXXIV. Il mito e il rituale di Attis, vol. I, p. 548. (torna al testo)
67. Laplanche-Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari, 1984, p. 514.
Rimozione: si attua nei casi in cui il soddisfacimento di una pulsione, atta di per sé a procurare piacere, rischierebbe di provocare del dispiacere rispetto ad altre esigenze. (torna al testo)
68. A. Cattabiani, Calendario, Rusconi Milano, 1989, p. 163. (torna al testo)
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9. Cibele e la psicosi
Nel caso specifico del mito e del relativo complesso di Cibele, potremo affermare che sia il complesso che il mito da cui deriva, si situano anche all’interno di una ambivalenza fisiopatologica. Il complesso di Cibele, con andamento fisiologico, sarà destinato a tramontare esattamente come l’Edipo. Un Edipo che dovrà: “[…] cadere quando e perché ha fatto il suo tempo” [69]. Di pari passo anche la maternizzazione fisiologica, geneticamente comune ad ogni madre che si occupa dei propri figli, dovrà definirsi in una gaia autonomia psicofisica indotta nei figli e riscontrabile a sua volta nelle madri. Una autonomia che chiaramente non significa la negazione di quel tenero legame affettivo che unisce la madre ai figli ma che si esprime con la rinuncia, da parte della stessa, a quell’“indotto” espresso nel legame incestuoso “condotto” sui propri figli. Un legame incestuoso sublimato, ossia agito sul piano psicologico ma più devastante dell’incesto fisico. Di fatto nella persistenza patologica del complesso prevarrà il legame nevrotico perverso con la prole. Un legame che potremmo definire anche come larvatamente o nascostamente psicotico a causa della violenza psicologica onnipresente in esso. Nel contempo si renderà anche evidente che la pratica dell’evirazione e dell’infibulazione psicologica agite, sia nel mito che nel complesso, evidenzieranno la prevalenza del fattore psicopatologico. Le due coppie endiadiche psicofisiologica-psicopatologica si renderanno all’evidenza dell’indagine psicoanalitica, nel senso più esteso della parola. Infatti secondo Sigmund Freud: “Il metodo d’indagine psicoanalitico può (…) essere ugualmente applicato alla spiegazione dei fenomeni psichici normali, e ha reso possibile scoprire l’intima relazione tra prodotti psichici patologici e strutture normali come i sogni, le piccole sbadataggini della vita quotidiana, e fenomeni di gran valore come i motti di spirito, i miti e le creazioni della fantasia” [70]. Se il mito di Cibele si rifà al sogno si potrà parlare, più propriamente, di un incubo. Un incubo che vedrà al suo risveglio il corpo mutilato del “miste”, ossia dell’accolito del culto di Cibele ed Attis. Questa autotomia od automutilazione indotta non si presenta soltanto come l’attualizzazione di un sintomo nevrotico perverso, spinto fino all’estremo, ma anche, o più precisamente, come espressione, secondo la nosografia psichiatrica, di una sindrome schizofrenica. Ci conferma al proposito l’illustre psichiatra Christian Müller: “Lo schizofrenico, sovrastato da paure sessuali, per fuggire il contatto con l’altro sesso, cerca una soluzione radicale nell’autocastrazione: con i mezzi spesso del tutto impropri questi pazienti si tagliano i testicoli, a volte anche il pene; qualche volta riferiscono di aver agito per ordine di voci” [71]. Una voce che, nel mito, è quella della Grande Madre che induce all’autocastrazione i suoi accoliti attraverso “mezzi spesso del tutto impropri”, quali spezzoni di coccio di vasi o di tegole. Un’evirazione od un’infibulazione che nella comune realtà dei fatti viene indotta dalla madre cibelica soprattutto sul piano psicologico. La schizofrenia, di fatto, si sovrappone perfettamente, lettera per lettera, alle movenze del culto cibelico.
Quindi il complesso di Cibele, che deriva dal mito, si rivela essere non solo il nucleo psicogeno dell’endiadi nevrosi-perversione ma anche, e non solo larvatamente, come quello su cui si fonda ogni psicosi, secondo la nomenclatura postanalitica. È questa una concettualizzazione che trova un suo riscontro, non solo nella nomenclatura psichiatrica ma anche in quella psicoanalitica. Infatti, di concerto, le psicosi, secondo Laplanche-Pontalis, hanno una loro ben precisa suddivisione, espressa anche nella schizofrenia: “La psicanalisi non si è posta direttamente il compito di costruire una classificazione comprendente la totalità delle malattie mentali che lo psichiatra deve conoscere; l’interesse si è rivolto dapprima alle affezioni più direttamente accessibili all’investigazione analitica e, all’interno di questo campo più ristretto di quello della psichiatria, le distinzioni fondamentali sono quelle tra perversioni, nevrosi e psicosi.
In quest’ultimo gruppo, la psicoanalisi ha cercato di definire diverse strutture: paranoia (in cui essa include generalmente le affezioni deliranti) e schizofrenia da un lato, malinconia e mania dall’altro. La teoria psicoanalitica individua fondamentalmente in una perturbazione primaria della relazione libidica con la realtà, il denominatore comune delle psicosi e considera la maggior parte dei sintomi manifesti (costruzione delirante in particolare) con tentativi secondari di ripristino del legame oggettuale” [72]. È ben chiaro quindi che la “perturbazione primaria della relazione libidica” avvenga, o possa avvenire, assolutamente in primo, nel legame oggettuale che la madre ha con i propri figli. Un legame nel quale la madre non permetterà il raggiungimento dell’autonomia agli stessi. Un legame che esprimerà in sé e per sé la più indicibile aggressività materna nei confronti della prole. Un’aggressività che trovò espressione nella costruzione psicotica del mito, del culto e della liturgia di Cibele ed Attis.
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69. S. Freud, in Opere, Boringhieri, Torino, 1979, Il tramonto del complesso edipico (1924), vol. X, p. 28. (torna al testo)
70. S. Freud, in Opere, Boringhieri, Torino, 1979, Sulla psicoanalisi (1911), vol. VI, p. 496. (torna al testo)
71. C. Müeller, Lessico di psichiatria, Piccin, Padova, 1980, Autolesionismo-Automutilazione, p. 93. (torna al testo)
72. Laplanche-Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, 1984, Voce: psicosi, pp. 439, 440. (torna al testo)
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