La Caduta dall’Eden – parte 2

Miti e SimboliIl mitologema della Caduta se da un lato richiama velatamente la conoscenza perduta – la trascendenza sulla dicotomia fenomenica e la reintegrazione non-duale – dall’altro ha la scelleratezza d’inculcare nell’Immaginario occidentale la superstizione che la vita sia una maledizione, un peccato.

La Caduta dall’Eden – parte 2

di Antonio D’Alonzo

Il mitologema della Caduta se da un lato richiama velatamente la conoscenza perduta – la trascendenza sulla dicotomia fenomenica e la reintegrazione non-duale – dall’altro ha la scelleratezza d’inculcare nell’Immaginario occidentale la superstizione che la vita sia una maledizione, un peccato.

L’uomo comune non è in grado d’interpretare allegoricamente il mitologema della cacciata dall’Eden – che, ripetiamo, nell’aspirazione alla “patria celeste” perduta da riconquistare richiama piuttosto l’ideale della nostalgia ontologica e dell’anabasi trascendentale – ed è condannato a reiterare nell’Inconscio collettivo l’equiparazione della sessualità al peccato e della donna alternativamente alla madre o alla meretrice, alla santa o alla strega.

Questa connotazione negativa della donna e della femminilità, propugnata nella storia dell’Occidente, non ha eguali: nell’Islam, ad esempio, l’uomo è corresponsabile della Caduta quanto la donna, quest’ultima non è più colpevole del suo compagno; nella lettura esoterica e teosofica del Genesi, presentata da Martinez de Pasqually in Trattato sulla reintegrazione degli esseri, i responsabili della Caduta sono Adamo, il «Minore Spirituale», e gli angeli perversi. Soltanto nella tradizione giudaico-cristiana è la donna ad essere ritenuta la principale colpevole.

Eppure in Genesi, 3: 4-5, Eva dimostra in un primo tempo la sua ubbidienza al precetto divino, per poi lasciarsi tentare dal serpente dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male:

«[…] Dio sa che quando voi mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene ed il male».

Dopo aver assaggiato il frutto, Adamo ed Eva scoprono di essere nudi e provano vergogna. Fino ad allora giravano tranquillamente nudi per l’Eden senza il minimo imbarazzo. Dopo aver assaggiato il frutto scoprono la vergogna del corpo e corrono a cercare delle foglie per coprirsi.

Questo è il momento preciso in cui avviene la separazione metafisica dall’Uno: irrompendo la vergogna per la differenza sessuale, i due “ribelli” si scoprono come dualità ed abbandonano lo stato indistinto della conciliazione originaria. La coniunctio primordiale, condizione perfetta ed esaustiva dell’amalgama preformale, antecedente al principium individuationis , è lacerata dall’irrompere della dicotomia fenomenica; l’Androgino, colpito dalla saetta di Zeus, si scinde in due metà destinate a ricercarsi per sempre. L’uomo e la donna, non a caso, conosceranno adesso la contrapposizione del bene e del male, mentre la vera conoscenza è – citando Nietzsche – al di là del bene e del male, nel dionisiaco amor fati verso la tragicità dell’esistenza, nel corpo di Kali, «ventre fertile e tomba del mondo»

Mentre la grecità – che pure s’interrogava sull’origine del male nel mondo – riconduceva la sconfitta ed il dolore al giogo di Moira, troneggiante sopra i destini degli stessi dei, la tradizione giudaico-cristiana ha avuto il torto di far risalire la sofferenza al peccato originale, innestando la perfida concatenazione della colpa e della pena.

Dopo aver interpretato il mitologema dell’Eden e la figura della Donna come tentatrice, responsabile della Caduta (che altro non è poi che la Dea-Madre dei canaanei). Rimane da chiarire chi sia veramente il serpente e che ruolo abbia nella vicenda.

Dopo che Eva ebbe additato il serpente come il vero responsabile della trasgressione, Dio si scagliò contro il rettile pronunciando il terribile anatema:

«Poiché tu hai fatto questo, sii maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe; questo ti schiaccerà la testa e tu le insedierai il calcagno» (Cfr. Genesi, 3: 15).

Una reazione davvero spropositata per una così lieve infrazione: cogliere un frutto da un albero…

Ma quello che sorprende in questo mito di fondazione è il ruolo totalmente negativo assunto dal rettile, alquanto inedito rispetto ad altre tradizioni. È vero che nella mitologia egizia, Aphophis è l’avversario par excellence del dio sole, mentre nel periodo romano compare l’Uroboros – «colui che si divora la coda» – speculare a Midgard, il serpente velenoso creato da Loki e vinto da Thorr nella tradizione nordica.

Ma l’Uroboros non può essere assunto ipso facto come simbolo del male, poiché esso ha piuttosto una valenza cosmologica e richiama la tenebra esterna che avvolge il mondo: in una parola, il non-essere che si concreta nell’anakuklesis, l’eterno ritorno di tutte le cose. L’eterno ritorno, l’Uroboros, relativizza il valore dell’essere, poiché se le stesse cose sono destinate a ritornare infinite volte, le azioni umane, i gesti storici, acquistano un carattere effimero ed illusorio.

Sempre in Egitto, il cobra decorava il copricapo del Faraone, come «Signore della vita e della morte»: Iside, porta sulla testa l’uraeus, il cobra reale. Il serpente è anche il simbolo dell’energia maschile che crea e distrugge, come ricorda Crowley (Cfr. A. Crowley, Il libro di Thoth: breve Saggio sul tarocco degli Egiziani, Imola, Sarva, 1989): non a caso il serpente è associato alla donna, alla Dea Madre. Nello gnosticismo antico, il serpente attorcigliato attorno all’Albero della Vita è simbolo della gnosis, della conoscenza; mentre nel neoplatonismo si narra che alla morte di Plotino un serpente fosse uscito dalla sua bocca.

Nella kundalini, il rettile addormentato in fondo alla spina dorsale richiama l’energia sessuale latente. Mucilinda è il serpente che ripara Buddha dalla forza degli elementi che si era scatenata durante la quinta settimana, dopo l’illuminazione sotto l’albero della Bodhi. Il Serpente Piumato mesoamericano (il Quetzalcoatl tolteco, il Kukulkán maya o il Gukumatz quiché) con il suo sacrificio volontario crea il cosmo. Nella mitologia greca, Zeus abbatte Tifone – il corrispettivo ellenico di Aphophis – ma lo stesso re degli dei non esita a trasformarsi in serpente per accoppiarsi a Persephone e generare Zagreo o Sabazio (epiteto di Dioniso nella tradizione cretese, frigia ed orfica). Il doppio serpente attorcigliato sul bastone di Asclepio – il Caduceo – simboleggia la rinascita e la guarigione.

Concludendo, possiamo notare come il serpente non sia in sé né buono né cattivo, ma ambivalente. Dotato d’entrambe le valenze. Nel Genesi diventa un simbolo del male, poiché gli ebrei devono rovesciare il culto della Dea Madre canaanea, dove il serpente – raffigurazione dell’energia maschile – si contrappone armonicamente all’archetipo femminile.

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