Il mitologema della Caduta se da un lato richiama velatamente la conoscenza perduta – la trascendenza sulla dicotomia fenomenica e la reintegrazione non-duale – dall’altro ha la scelleratezza d’inculcare nell’Immaginario occidentale la superstizione che la vita sia una maledizione, un peccato.
«[…] Dio sa che quando voi mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene ed il male». Dopo aver assaggiato il frutto, Adamo ed Eva scoprono di essere nudi e provano vergogna. Fino ad allora giravano tranquillamente nudi per l’Eden senza il minimo imbarazzo. Dopo aver assaggiato il frutto scoprono la vergogna del corpo e corrono a cercare delle foglie per coprirsi. Questo è il momento preciso in cui avviene la separazione metafisica dall’Uno: irrompendo la vergogna per la differenza sessuale, i due “ribelli” si scoprono come dualità ed abbandonano lo stato indistinto della conciliazione originaria. La coniunctio primordiale, condizione perfetta ed esaustiva dell’amalgama preformale, antecedente al principium individuationis , è lacerata dall’irrompere della dicotomia fenomenica; l’Androgino, colpito dalla saetta di Zeus, si scinde in due metà destinate a ricercarsi per sempre. L’uomo e la donna, non a caso, conosceranno adesso la contrapposizione del bene e del male, mentre la vera conoscenza è – citando Nietzsche – al di là del bene e del male, nel dionisiaco amor fati verso la tragicità dell’esistenza, nel corpo di Kali, «ventre fertile e tomba del mondo» … Mentre la grecità – che pure s’interrogava sull’origine del male nel mondo – riconduceva la sconfitta ed il dolore al giogo di Moira, troneggiante sopra i destini degli stessi dei, la tradizione giudaico-cristiana ha avuto il torto di far risalire la sofferenza al peccato originale, innestando la perfida concatenazione della colpa e della pena. Dopo aver interpretato il mitologema dell’Eden e la figura della Donna come tentatrice, responsabile della Caduta (che altro non è poi che la Dea-Madre dei canaanei). Rimane da chiarire chi sia veramente il serpente e che ruolo abbia nella vicenda.
Ma l’Uroboros non può essere assunto ipso facto come simbolo del male, poiché esso ha piuttosto una valenza cosmologica e richiama la tenebra esterna che avvolge il mondo: in una parola, il non-essere che si concreta nell’anakuklesis, l’eterno ritorno di tutte le cose. L’eterno ritorno, l’Uroboros, relativizza il valore dell’essere, poiché se le stesse cose sono destinate a ritornare infinite volte, le azioni umane, i gesti storici, acquistano un carattere effimero ed illusorio. Sempre in Egitto, il cobra decorava il copricapo del Faraone, come «Signore della vita e della morte»: Iside, porta sulla testa l’uraeus, il cobra reale. Il serpente è anche il simbolo dell’energia maschile che crea e distrugge, come ricorda Crowley (Cfr. A. Crowley, Il libro di Thoth: breve Saggio sul tarocco degli Egiziani, Imola, Sarva, 1989): non a caso il serpente è associato alla donna, alla Dea Madre. Nello gnosticismo antico, il serpente attorcigliato attorno all’Albero della Vita è simbolo della gnosis, della conoscenza; mentre nel neoplatonismo si narra che alla morte di Plotino un serpente fosse uscito dalla sua bocca.
Concludendo, possiamo notare come il serpente non sia in sé né buono né cattivo, ma ambivalente. Dotato d’entrambe le valenze. Nel Genesi diventa un simbolo del male, poiché gli ebrei devono rovesciare il culto della Dea Madre canaanea, dove il serpente – raffigurazione dell’energia maschile – si contrappone armonicamente all’archetipo femminile. |