Se l’elemento maschile nell’Immaginario religioso è sempre stato associato alla potenza ed alla stabilità, il femminile – come abbiamo visto – richiama una costellazione di significati simbolici connessi alla trasformazione e al divenire. L’archetipo della Madre impronta la fenomenologia sulla gestazione e sul concepimento, richiamando, ineluttabilmente, il potere fertile della Terra che feconda il seme, da cui nascerà la pianta. La sacralità arcaica – prima che il pensiero speculativo si sviluppasse nelle raffinate Upaniśad o nelle meditazioni presocratiche – era fondata sull’Immaginario mitico e sul simbolico, senza per questo ipotizzare una qualche forma di subordinazione evolutiva tra i due ambiti della conoscenza umana.
Morfologia della sacralità femminile
Il mythos non è assolutamente inferiore al logos , così come non lo è la conoscenza simbolica rispetto ai sillogismi ed alla deduzione logica. Si tratta di strumenti differenti, che presentano la stessa dignità metodologica. Così non ci si deve sorprendere troppo, quando rinveniamo mitologemi ed archetipi simili in culture eterogenee (si provi a comparare, ad esempio, la cosmogonia dei Bassari, popolo dell’Africa occidentale, con il mito biblico dell’Eden: il tessuto narrativo è quasi identico, ritroviamo lo stesso Albero della Conoscenza, lo stesso serpente tentatore, ecc.). Questo può portare ad ipotizzare la presenza dell’identica Tradizione Primordiale all’origine di tutte le religioni e tradizioni del mondo, così come può rendere plausibile la formulazione di teorie più “scientifiche”, quali la “diffusionista” e dello scambio culturale. Condividere un sistema, anziché un altro, è sempre un problema di fede e – come ha dimostrato l’epistemologia novecentesca – anche il sapere scientifico non è un edificio costruito un piano sopra l’altro. La morfologia simbolica della Madre è fondata sulla trasformazione del corpus femminile – più appariscente di quella maschile – non soltanto in relazione allo stato della gestazione e della gravidanza, ma anche attraverso le metamorfosi puberali che regalano al corpo informe dell’infante la sinuosa carnalità della donna. Fenomenologia della metamorfosi non solo rispetto al proprio corpo, ma anche come protezione amorevole assicurata ad un oggetto esterno, quale può essere un neonato trasformato in bambino autosufficiente dalle cure materne. Languida sensualità e cura dell’oggetto amoroso, ma non solo: l’operosità stessa, le sue mansioni quotidiane, trasmutano “alchemicamente” la materia naturale in indumenti e in cibo. La donna – ed in lei il suo archetipo più importante, la Madre – è, dunque, sinonimo di trasformazione, di metamorfosi. L’opposto complementare dell’elemento maschile legato alla rocciosa stabilità e fermezza di carattere. Si spiega così l’importanza dell’elemento femminile in relazione allo sviluppo dell’agricoltura, ai cicli lunari ed all’alternarsi delle maree. Le donne si occuparono per prime della coltivazione delle piante, mentre gli uomini si dedicavano esclusivamente all’attività venatoria, ma, senza ombra di dubbio, in Illo Tempore, su questa scelta influirono anche le associazioni simboliche inconsce, di cui abbiamo parlato. Il femminile e la NaturaRitroviamo, in quasi tutte le tradizioni, l’accostamento tra il femminile e la Natura. Sotto questo aspetto, Lovelock, con la sua “Ipotesi Gaia”, non ha inventato nulla, ma ha comunque il merito di essere riuscito a riattualizzare il mitologema, presentandolo all’opinione pubblica attraverso uno stile e dei concetti accattivanti ed al passo dei tempi. Il primo impatto che l’uomo prova di fronte alla sinuosa armonia della Natura è di terrore ed al contempo di piacere sensuale, di pathos ed ex-stasi; lo stesso Aristotele pone all’origine della speculazione (come ricorda Heidegger, da che cosa nasce la metafisica occidentale, se non dalla contemplazione di ciò che si presenta per la prima volta di fronte allo sguardo?), lo stupore, il senso della meraviglia. L’associazione tra la Natura e la Madre è scontata; l’imprinting dell’infante concerne l’impatto visivo con due figure: con l’ambiente esterno – specialmente nelle civiltà premoderne dove si partoriva all’aperto – e con il capezzolo materno. Nell’ Atharvaveda si può leggere un’altra comparazione tra la Madre e la Natura: « la terra è la madre, ed io sono il figlio della terra » (Cfr. Atharvaveda, 12.11); nell’omerico Inno alla Terra, la Natura è presentata come « madre di tutte le cose, che nutre tutto ciò che esiste sul suo suolo »; per gli Ogala dell’America settentrionale, «la terra, infatti, è vostra ava e vostra madre ed è sacra» (Cfr. J. E. Brown, La sacra pipa, Einaudi, Torino, p. 5, 1970). Nei templi indù, essa è raffigurata come prigioniera di un demone che la trascina nelle acque del mare, prima di essere liberata da un verro gigantesco, manifestazione di Vishnu. Non a caso la Terra si manifesta – come consorte di Vishnu – anche come Bhū, dea del cambiamento e della metamorfosi. Dal canto suo, Buddha ne invoca il potere, accarezzando il suolo, per respingere le insidie di Mārā, il dio della morte e del desiderio (nel Buddhismo si svela il legame intrinseco tra il desiderio, la sofferenza e la morte, che in questo caso corrisponde ad una nuova rinascita a sua volta foriera di altre pene ed illusioni); la dea della Terra si erge dal suolo, mostrando a Buddha ed a Mārā soltanto la parte superiore del busto, mentre la parte inferiore non è distinta dal terreno: la stessa epifania appartiene anche alla greca Gaia, analogia che dimostra la matrice comune dell’Immaginario indoeuropeo. La nascita per emersione dal sottosuolo è un mitologema diffuso in molte tradizioni. Malinowski, nei suoi studi etnologici sulle isole Trobriand, riferisce come l’antenato mitico di ogni clan fosse emerso, in quel tempo remoto, dal sottosuolo. Anche gli Ashanti africani credevano che i loro antenati spuntassero dal terreno. Per gli Oglala tutti gli uomini vivevano sottoterra: furono condotti alla luce del sole da un inganno ordito da due trickster, il Ragno Inktomi e la Donna Cervo Anukite. Concepimento dalla TerraIl mitologema del concepimento diretto dalla Terra – senza il concorso sessuale di un compagno mitico – è a tal punto diffuso presso le isole Trobriand, che le donne ritengono di rimanere incinta per l’influsso degli antenati e depongono il neonato al suolo per riattualizzare la partenogenesi verginale della Madre Terra. In molte altre tradizioni è diffuso il mitologema dello Hieros gamos cosmogonico dove l’elemento maschile è identificato con il Cielo ed il femminile con la Terra, ad eccezione della tradizione egizia dove a raffigurare il Cielo è la dea Nut. Il racconto mitico presenta una situazione iniziale di fusione nell’Unità delle due polarità, che in seguito ad un evento straordinario – volontario o involontario – si scindono, determinando il mondo fisico che conosciamo. Lo stesso mitologema ricorre in diversi racconti sulla separazione dei sessi: tutti ricorderanno il celebre mito platonico dell’Androgino, narrato nel Simposio, scisso in due a causa della gelosia provata da Zeus ( Cfr. Platone, Simposio, BUL) . È curioso constatare come in molti miti sia la Terra a respingere il Cielo, rovesciando il tema classico del deus otiosus che si ritrae sdegnato nell’iperuranio. È il caso della cosmogonia degli Zumi, dell’America settentrionale, dove la Madre Terra ripudia il marito Cielo dopo essere rimasta incinta. Altre volte interviene un agente esterno. Tane-Mahuta – «padre delle foreste» nella mitologia Arawa, tribù della Nuova Zelanda – separa a forza la Madre Terra ed il Padre Cielo dal loro abbraccio primordiale per scacciare le tenebre e dare inizio al mondo. Nella mitologia greca Crono non esita a separare – evirando il padre con una falce – l’abbraccio infinito di Urano e di Gaia. In molti casi, l’inviolabilità sacrale del corpo della Madre Terra conduce l’Immaginario primitivo all’equiparazione dell’agricoltura con atti di violenza inflitta al corpo femminile. Un mitologema che vede protagonista l’archetipo del Dema è tramandato a Ceram, in Indonesia, dove la fanciulla mitica Hainuwele viene smembrata e sepolta: dai suoi arti sotterrati nasce l’igname, l’ortaggio principale dell’isola. Il profeta indiano americano Smohalla esprime tutto il disagio che provoca nel suo popolo l’idea di praticare l’agricoltura: «tu mi chiedi di arare la terra. Posso forse prendere un coltello e squarciare il petto di mia madre?» (Cfr, J. Mooney, Annual Report of the Bureau of American Ethnology, vol.14, Washington/D.C. 1986). Ecco perché in molte tradizioni agricole si celebravano riti cruenti, che terminavano con il sacrificio di una vittima, spesso umana. Il cosmo non era considerato infinito ma coincidente con l’unità temporale di un anno (Cfr. M. Eliade, Il sacro ed il profano, Bollati Boringhieri, Torino 1984); al termine dell’anno il mondo sarebbe finito, se non si fosse reiterato mimeticamente il sacrificio originario degli dei, da cui era nato il cosmo. Secondo lo stesso schema simbolico, la terra avrebbe cessato di regalare piante e frutta, qualora non si fosse replicato ad ogni stagione il rituale della violenza inferta alla Madre con la scoperta dell’agricoltura. Quindi, erano scelte vittime umane in grado d’incarnare mimeticamente il mitologema del Dema. La caverna e il grembo maternoNell’Immaginario arcaico, la caverna è sovente associata al grembo materno della Terra, da cui nascono tutte le creature. Nei miti di fondazione di alcune civiltà “primitive”, il luogo d’origine è individuato in una caverna: gli Oglala, ad esempio, credono che i loro antenati mitici siano usciti per la prima volta da una caverna situata sulle Colline Nere del Sud Dakota. La stessa pittura parietale del Neolitico e del Paleolitico può essere interpretata come una sorta di arte sacra, dove le scene di caccia servivano ad arredare quelli che, presumibilmente, dovevano essere dei veri e propri santuari nascosti nelle caverne. Questa teoria è corroborata dalla constatazione che i dipinti parietali si trovano in profondità e piuttosto lontano dall’ingresso della caverna, probabilmente per supportare dei rituali d’iniziazione in cui i candidati dovevano ripercorrere il processo inverso alla nascita, in una sorta di regressus ad uterum.
Altre volte un mostro di sesso femminile custodisce l’ingresso dell’Inferno. Le-hev-hev della Malekula, isola nell’arcipelago delle Nuove Ebridi, si erge minacciosa davanti all’anima che entra nell’oltretomba. Tra l’anima e Le-hev-hev è disegnato sulla sabbia un labirinto, metà distrutto dall’avvicinarsi della mostruosa guardiana. Se l’anima del trapassato non riesce a ricostruire la figura cancellata non può entrare nell’oltretomba e viene divorata da Le-hev-hev. I riti d’iniziazione puberale dei Malekulani, non a caso, danno grande importanza alla conoscenza dei labirinti. |