Nel XVIII secolo si diffonde un’enorme mole di materiale etnografico, concernente soprattutto i viaggi dei missionari gesuiti nel Nord America e nel Messico.
L’incontro dei gesuiti con le civiltà mesoamericane, risente della necessità di armonizzare i mitologemi della Rivelazione cristiana con la presenza di civiltà pagane, che presentano dei zoomorfici sempre pronti a richiedere ingenti sacrifici di sangue umano.
Dall’invasione di Cortés del territorio azteco iniziata nel 1519, alla conquista dell’ultima città maya indipendente, Tayasal, nel 1697, si elabora quella riduzione dell’uomo “primitivo” o arcaico al “selvaggio”, così caratteristica dello spirito del tempo. In particolare Bernhard le Bovier de Fontenelle (1657-1757), riafferma la necessità della diffusione universale della Rivelazione cristiana, così che vengono tacciati d’“infantilismo” quei popoli che non l’hanno saputa accettare. In particolare tutti i popoli sono, secondo B.B. de Fontenelle, in grado di ricevere la verità evangelica, ma a causa dell’infantilismo intellettuale di alcune etnie, l’evoluzione spirituale di alcune civiltà si è come arrestata o ritardata. Questa teoria è supportata, sempre secondo B.B. de Fontenelle, dalle similitudini tra i miti degli Indiani americani e quelli degli antichi Greci. Nasce così l’etnocentrismo, la pretesa di giudicare e valutare le altre culture secondo i parametri che hanno forgiato la civiltà occidentale moderna. Si sviluppa anche il metodo comparativo, che così tanta fortuna apporterà in seguito alle scienze umane, in particolare all’antropologia ed alla storia delle religioni. Ma che in questo contesto originario viene sfruttato più che altro per riaffermare la supremazia culturale dell’Occidente. Vedremo in seguito come questa presunta superiorità culturale si basi soltanto su alcuni parametri, con l’esclusione di altri. Quindi, come la valutazione non sia obiettiva, ma inficiata da pregiudizi che tendono a riconoscere la differenza soltanto in quanto si approssima all’identità. In altre parole, come nell’ etnocentrismo, l’identità culturale non si raffronti per nulla alla diversità, ma riconosca soltanto quegli aspetti che già sono costitutivi della propria formazione storica. Ad esempio, si riconosce il pantheon degli Indiani americani soltanto in quanto assomiglia a quello greco. Constatazione che permette ai missionari europei di catalogare i primi come vittime di un’ingenua “fanciullezza” spirituale, già superata dalla genti europee passate dal politeismo al monoteismo. Addirittura, Charles de Brosses (1709-1777), studiando con il metodo comparativo l’approccio al sacro delle comunità africane, arriva a sostenere che si dovrebbe studiare la religione africana per comprendere meglio certi mitologemi della Grecia arcaica. La distanza tra gli africani e gli europei diviene, così, abissale: addirittura i primi sono paragonati agli uomini delle dark ages, seguite alla dissoluzione della civiltà micenea nella Grecia continentale tra il XII e IX secolo a. C. Nel XIII secolo, con la diffusione dell’Illuminismo si riduce ad un unico schema interpretativo tutta la mitologia dei popoli, preparando così il terreno all’avvento dell’evoluzionismo ottocentesco. La presunta superiorità della civiltà occidentale è presagita ancora in maniera embrionale: troverà la sua apoteosi ideologica soltanto con l’applicazione dell’evoluzionismo darwiniano all’etnologia culturale. |