La legge ed i suoi postulati si collocano in due grandi gruppi: uno riferito alla tradizione orale – non ubicabile nel tempo – indicato dal termine Midrash, la cui traduzione letterale potrebbe essere “investigazione”; l’altro concerne gli aspetti dottrinari relativamente ai primi testi, indicato dal termine Mishna. Questo ha il suo principio negli scritti di Mosè, i quali, oltre a descrivere la creazione, stabiliscono 613 precetti che l’ebreo deve compiere. Questi 613 precetti possono incorniciarsi in 14 categorie. Il tutto contiene le norme di un paese, delle relazioni del suo popolo e con Dio.
La legge e la tradizioneLa legge ed i suoi postulati si collocano in due grandi gruppi: uno riferito alla tradizione orale – non ubicabile nel tempo – indicato dal termine Midrash, la cui traduzione letterale potrebbe essere “investigazione”; l’altro concerne gli aspetti dottrinari relativamente ai primi testi, indicato dal termine Mishna. Questo ha il suo principio negli scritti di Mosè, i quali, oltre a descrivere la creazione, stabiliscono 613 precetti che l’ebreo deve compiere. Questi 613 precetti possono incorniciarsi in 14 categorie. Il tutto contiene le norme di un paese, delle relazioni del suo popolo e con Dio. Va ricordato che da quel tempo fino a pochi secoli fa, nuovi commenti sono stati incorporati sugli scritti esistenti. Prima era il Sinedrio l’autorità competente a definire il valore canonico di tali scritti, per determinare quali interpretazioni avevano carattere legale e/o religioso e quali no. Come è possibile stabilire un criterio che ne accetti alcuni e non altri? Ai testi originali di Mosè sono state incorporate successivamente delle relazioni rabbiniche, create in funzione della forma, come quelle spiegazioni mirate agli ebrei della diaspora. Come può determinarsi che tali spiegazioni siano adeguate? Come si può determinare se le spiegazioni, prese successivamente come valide, conservano una relazione col metodo strutturato dall’alfabeto, che spiega la creazione dell’universo? La tradizione cabalistica e la via ortodossa del giudaismo credono di aver risolto tali questioni basando l’elezione delle interpretazioni su quello che si conosce come “Masora”. Perciò fu creato un comitato di esperti o grammatici religiosi conosciuti come masoreti. Essi sono quelli che, dopo molti studi ed applicazioni sull’oggetto della controversia, danno un carattere legale alle loro interpretazioni. Così, la tradizione arriva fino a noi; in quanto alle interpretazioni, esse sono cariche di aspetti aggiunti. Inoltre, lo studioso ebreo, non ferma la sua analisi fino a quando non riesce a pensare come i suoi maestri. Questo è lo stesso metodo che difendeva Maimonide per arrivare alla verità attraverso la negazione e non l’affermazione, solo che in questo caso, non credo che si eserciti liberamente, ma in modo mediato. Possiamo così considerare la Torah come di due livelli: una Torah celeste ed una Torah terrestre. La prima stabilisce una serie di leggi naturali che sono lì per chi le vuole studiare. L’altra conserva gli aspetti dottrinari di un’ortodossia di un determinato gruppo. Ma il più alto concetto della Torah non può essere limitato ad un gruppo, ad alcune abitudini, ad una nazione o ad una religione istituzionale. La Torah celeste non può essere rinchiusa nelle norme di un paese o razza o religione. Cosciente di ciò, la mistica ebraica utilizza il termine Torah in relazione con Israele e non agli ebrei, perché il nome Israele indica, non un gruppo, bensì l’umanità intera. Pertanto lo studio della Torah è qualcosa che compete al mistico, e la sua realizzazione, all’esperienza dell’Essere. Questo non esclude di studiare la Torah terrestre, perché anche i precetti di Mosè ci obbligano a conoscere Dio e ad essere intelligenti. Seguendo solo questi due concetti, bisogna analizzare le leggi, utilizzare la ragione negli aspetti più alti della vita ed applicare i suoi risultati alla pratica giornaliera. Questo è un modo di studiare la Torah minore per raggiungere la Torah maggiore. È da più di millecinquecento anni che i rabbini tentano di interpretare le Scritture e le tradizioni che hanno ereditato. Il metodo di studio sviluppato è quello che si conosce come esegesi, la quale contiene due aspetti: a) Midrash halacha e b) Midrash haggada. La Halacha si occupa di investigare gli aspetti che si riferiscono al punto di vista legale contenuto nelle Scritture. La Hagada si dedica allo studio delle parole, al senso delle frasi. Hagada si interpreta come narrare, contare le parole. Pertanto, la Midrash Hagada, raccoglie tutti i racconti e le spiegazioni della tradizione ebraica. Tra l’anno 30 a.C. e due secoli dopo, si svilupparono le regole che servirono per l’interpretazione metodica della Torah. I maestri di quell’epoca l’avevano appresa dai loro predecessori e li trasmisero ai loro discendenti. Così facendo, le regole di interpretazione sono rimaste scritte nella tradizione e nella Torah. Dice il rabbino Safran, che la Torah è un libro chiuso che non dice niente fino a che lo studente lo apre. È comune che lo stesso testo, le stesse parole, non dicano la stessa cosa a uno studente novello e a un iniziato. Ma anche l’iniziato, troverà che lo stesso testo per lui cambia studiandolo in tempi diversi. Quante volte abbiamo studiato un tema e ritornandoci sopra dopo alcuni mesi, abbiamo scoperto cose nuove che prima non avevamo considerato? Leggere, riflettere, meditare, tornare a leggere, etc., cambia il significato del testo. Non è il testo che cambia, ma la nostra capacità di apprendimento che lo cambia ai nostri occhi. Il livello di coscienza di ognuno fa sì che le stesse lettere e parole cambino il loro significato. La combinazione tra l’interpretazione o nozione nella mente dello studente ed i contenuti della legge, sperimentati, è ciò che aggiorna la sua potenzialità divina e gli conferisce benevolenza per il mondo di tutti i giorni, nel proprio cuore e nella propria mente e nella sua relazione bidirezionale: con Dio e col suo prossimo. Anche lo Zohar considera la legge immobile, essa si vivifica quando studiata dallo studente o dall’iniziato. Nella tradizione, la legge ha stabilito il suo linguaggio attraverso i simboli mistici, e questi come quella, rimarranno immobili a meno che non li si investighi (ricorrendo al Midrash) o non li si metta in relazione con esperienza. Con tale dinamismo, si stabilisce una relazione tra il simbolo e noi, o tra la legge e lo studente. A partire da questa relazione, nuove idee sorgeranno alle nostre menti ed ai nostri cuori. Precisamente questo è il valore intrinseco di alcuni rituali di creazione, realizzati alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo che presiede con Saggezza, aiuta con la Sua forza ed adorna con la Sua bellezza. Gli atti dell’uomo, mentre si armonizzano col suo essere interno, saranno guidati dai principi provenienti dall’anima. Ma egli deve attrarre quei principi o dettati, leggi, fino al livello della ragione. Questo è quello che lo fa cosciente della rivelazione. Quindi deve interpretarla, rifletterla, osservare il suo contenuto e tentare di stabilire una relazione coerente coi temi correnti. Deve perfezionare, levigare il suo specchio, per potere riuscire nell’intento che l’oggetto della ragione sia identico alla legge rivelata. Nella tradizione la legge (Halacha), procede dal racconto (Hagada). Questo equivale a dire che prima viene la rivelazione e dopo l’interpretazione. Posteriormente verrà l’ordine e l’applicazione di detta rivelazione. Vuole anche dire che lo studio deve precedere l’applicazione e che questa deve adattarsi a quella. Entrambi gli aspetti costituiscono il Midrash stabilendo la relazione in quello che modernamente possiamo chiamare immaginazione e ragione. Entrambe devono fondersi. Come pratica ci consigliano di meditare, aspettare l’intuizione che apparirà in un flash che arriva, corre, e va via. I maestri cabalisti consigliano di meditare sulle sephirot, aspettare la visione, correre dietro di esse (la visione) e dopo lasciarle andar via. Dopo deve diventare il mondo materiale cercando di applicare quello che si impara. In questo modo non solo si eleva l’apprendista, più egli si eleva, trascende, più si eleva anche il mondo che lo circonda. La Torah, come dicono i cabalisti, è il cuore dell’esistenza. Questa idea che possiamo considerare religiosa o filosofica, è sostenuta dal metodo della combinazione delle lettere ebraiche, cioè, combinando la prima e l’ultima lettera della Torah. La prima lettera della Torah è la Bet di Berechit, il numero due; l’ultima è la lettera Lamed di Israele che vale trenta. Trasponendo le due lettere si forma la parola Lev (questa uve è la Bet sola che si mette con uve per indicare la sua pronuncia soave perché si tratta di una lettera doppia). La parola Lev significa cuore, in modo che dicendo che la Torah è al cuore dell’esistenza che si sta alludendo alla prima e all’ultima lettera. D’altra parte, detta parola sommata vale trentadue, lo stesso numero di sentieri che ha la cabala: i dieci pre-numeri e le ventidue lettere dell’alfabeto. La tradizione primordialeOgni cosa che leggiamo, ascoltiamo o pensiamo passa attraverso un setaccio. Bisogna discutere ogni idea. Fra gli ebrei questa pratica esisteva da tempi remoti. Il dibattito costituisce un metodo in sé stesso, ogni volta che qualsiasi interpretazione umana delle cose sacre, non contrastata, possa indurci a credere come vere le proiezioni della nostra mente, le nostre necessità dell’ego, gli inganni, la fabbricazione di tutto quello che nasce dalla ruota immaginativa che siamo. Un doppio atteggiamento, attivo e passivo, dal punto di vista della mente soggettiva, sarebbe la cosa più adeguata. Entrare nel combattimento delle idee, attaccare e difendersi, così come facevano anticamente i dottori della legge, dimostra forse una maturità sufficiente per realizzare questo compito senza che ci si senta offesi quando la propria idea non è quella che prevale. Lo studio della cabala è qualcosa che non deve essere fatto da soli, perché se non facciamo parte di un gruppo che ci consenta di confrontare le idee o appianare i contrasti, scivoleremo facilmente in una realtà che va bene solo per noi. Così attrezzati possiamo cominciare lo studio delle parole ed affrontare gli opposti sperando di riuscire ad unirli perfettamente. A questo proposito, la dualità, come abbiamo già detto è la realtà più esplicita e schiacciante che ci viene in mente, ma è anche il più grande di tutti gli inganni. Diciamo che nessuna realtà esiste senza l’esistenza degli opposti, cioè, non sapremmo cos’è il freddo se non avessimo il caldo, l’alto senza il basso, il dolce senza l’amaro etc. Tutto sembra esistere grazie alla dualità. L’opposizione è forte e costante. Tuttavia, nell’esperienza mistica dell’essere quando la nostra mente pensante ed immaginativa viene zittita, possiamo sperimentare il qui ed ora, non sperimentando la dualità in questo livello di coscienza. Alcune persone non condividono la discussione sul significato delle parole. Credendo che ci sia chi è più erudito di loro, non trovano interessante quello che hanno da dire. Nella controversia, come metodo cabalistico questo sarebbe un errore, l’erudizione si presenta in questo caso come l’uso della risorsa dialettica o il dominio di adornare con filigrane un’idea espressa verbalmente. Questo non è quello che si cerca nella discussione sui significati delle parole con le quali si costruisce la creazione. Qui dobbiamo mettere a fuoco il tema sul fatto di “contare le parole”, le quali devono nascere dal nostro cuore ma anche dalla nostra mente. Esprimersi verbalmente avendo come origine il cuore e non le menzioni, vuol dire aggiungere i sentimenti che una parola sacra può suggerirci. Non incentiviamo il sentimentalismo, l’emozione cattiva diretta; quello che stiamo indicando è che una certa dose di conveniente emozione si trasformi in una forza speciale contando le parole. Le parole dette con senso ed emozione necessaria non hanno bisogno di fronzoli. Si vuole che la tradizione primordiale sia la prima parola scritta che si trasforma in qualcosa di fondamentale. Rappresenta inoltre il vincolo di unione tra diversi interlocutori: primo tra la nostra mente ed il nostro cuore e poi tra quest’ultimo e Dio che comprendiamo e sentiamo, mettendo ognuno di noi in comunicazione col resto del gruppo che si riunisce con lo stesso fine. Chi si riunisce con questo intento lo fa per avere presente il più alto significato della Parola, avendo davanti il prologo del Vangelo di San Giovanni. San Giovanni dà alla parola lo stesso significato che più di mille anni prima gli diede Mosè. Non credo che sia pura coincidenza che i due autori, a più di un millennio di distanza abbiano scelto per cominciare le loro opere lo stesso sostantivo: Principio (berechit). La parola nascosta e la parola raccontata, asse della tradizione primordiale, è il davar, o devar, mentre la parte più occulta del Tempio di Salomone è il devir, il quale si presenta come un cubo perfetto di 20x20x20, nel quale si trovano due cherubini con le ali spiegate. Sotto la loro intersezione si trova l’arca che contiene i rotoli dalla Torah. Lì la parola, è la Parola di Dio, che è anche presente in noi. In entrambi i tempi del discorso lo scritto nasce dalla voce del Santo. La prima parola è luce, ma prima della luce ci fu il suono, perché “Dio disse: ci sia luce”. Dal punto di vista umano, il pensiero precede la parola, col risultato che nel livello divino concepiamo anche la creazione come un prodotto del pensiero di Dio. Nonostante, pensiero, parola (luce) ed opera, costituiscono il primo triangolo di creazione, benché li si concepisca separati, sono un solo ed unico atto. Un altro aspetto della parola è il silenzio. A questo ci siamo riferiti parlando dell’esperienza dell’essere attraverso il silenzio della mente ragionatrice. Se diciamo che dobbiamo pianificare la controversia e poi raccomandiamo il silenzio, sembra che ci stiamo contraddicendo, non è così. Quello che proponiamo è la pratica di entrambe le cose. Nell’aspetto del silenzio, oltre ad essere implicito il raggiungimento della meditazione, rimane ferma la necessità di auto-educarci nella pratica dell’ascolto. Ascoltare è qualcosa che non equivale a quello che fanno a scuola gli studenti nonostante passino in classe molte ore prestando attenzione. Nell’ambito della pratica cabalistica, quello che vogliamo intendere è la necessità di raffinare l’udito. Se da una parte dobbiamo ascoltare è anche implicito che dobbiamo ascoltarci. Allo stesso modo, quando è un altro che parla, dobbiamo ascoltarlo, perché egli si sta anche sforzando di utilizzare parole adeguate, che, prima di lui sono state dette. In questo modo il dibattito gira attorno all’ambiente appropriato, perché la forza vibratoria delle parole così enunciate, continua a penetrare in noi e si dirige verso livelli superiori. L’interruzione dell’interlocutore prima che termini l’espressione del suo pensiero, rompe l’equilibrio accennato. D’altra parte, lo sforzo di ascoltare i nostri interlocutori, si traduce nella pratica di ascoltare noi stessi. Ma ancora, se impariamo ad ascoltare il nostro essere interiore, subito si trasformerà nella migliore guida per la nostra vita. Una pratica semplice è fare attenzione in ciò che si ascolta fino ad arrivare a percepire il silenzio, anche quando si ascolta. Dopo il silenzio c’è un altro suono cosmico o voce del mondo. Un’altra pratica è portare la nostra attenzione verso il centro del nostro petto e rimanere in silenzio fino a che sentiamo il sussurro del nostro essere interno. Fate attenzione che abbiamo proposto un esercizio per raggiungere la visione ed un altro per raggiungere l’audizione profetica. Man mano che ci autoeduchiamo nell’ascolto, continua a nascere in noi un senso di obbedienza che dobbiamo spiegare per non essere fraintesi. L’obbedienza non si riferisce a quegli aspetti del mondo nei quali ci sono due fazioni, i dominatori e i dominati. Quando menzioniamo la parola obbedienza, dal verbo ebraico “chamoa”, implica la sottomissione incondizionata di chi ascolta rispetto a colui che parla. Orbene, siccome ci stiamo riferendo ad un processo di interiorizzazione, la parte che ascolta è il nostro io esterno, mentre quello che parla è nostro io interno. Tuttavia, quando portiamo il tema dell’obbedienza sul piano del gruppo, implica il totale rispetto verso le idee di colui che parla, perché anche egli sta facendo sforzi per esprimere al meglio delle sue possibilità. Quello che deve essere ben chiaro è che lo studente di cabala deve cercare di essere intelligente, analizzare e ragionare, e raggiungere le sue proprie idee. Ma deve anche obbedire, cioè, essere attento o essere sempre cosciente della sacra luce che gli è stata rivelata. Attraverso questo doppio lavoro, l’iniziato osserva la legge, la contrasta con la sua intelligenza e la medita. Con ciò, si trasforma in recettore e trasmettitore della propria legge. Così facendo si trasforma anche in un “possessore” della tradizione, perché il suo insegnamento, rappresenta la forma viva ed umana della tradizione passata e venerabile. Racconta il libro dei Re, (I) che la Regina di Saba aveva ascoltato la saggezza di Salomone, quindi decise di fargli visita per strappargli il segreto della costruzione del tempio. Si narra che il tempio fu costruito senza rumori di picconi e di pale o di altri oggetti taglienti. Come se le pietre usate nella costruzione fossero state intagliate prima. Noi siamo il tempio, che dobbiamo costruire e ricostruire tutti i giorni alla gloria del Grande Architetto dell’Universo. Ogni volta che l’iniziato riceve e trasmette la tradizione, sta costruendo. Il tempio che si costruisce e si ricostruisce, si erige e torna ad innalzarsi ogni volta che l’iniziato realizza lo studio delle parole, pratica il silenzio e l’obbedienza. L’atteggiamento di essere sempre cosciente della sacra luce, di ogni atto, dei gesti, parole e pensieri, oppure quando si affronta il significato di ogni cosa, quando si trasmette a Dio, dal nostro cuore, la giusta emozione, si rende onore alla Legge. La luce del Tempio è la luce del mondo. Lì, in mezzo al mezzo, sta la Shej’nah, nella nostra Gerusalemme particolare. Da lì l’iniziato erige il suo tempio con saggezza, poggiandolo con la sua forza ed adornandolo con la sua bellezza. Questi tre attributi si trovano ognuno in una colonna dell’albero della vita, come la tesi, l’antitesi e la sintesi, molto presente in varie sezioni del Sepher Yetzirah. Gli ebrei passano sei giorni della settimana ricostruendo il tempio, il settimo, lo shabat, non costruiscono, ma si trasformano nel tempio. Fuori dal devir, il resto del tempio prende il nome di “hekal”, parola che deriva da “kol” che vuole dire “tutto”. Quando lo studente oltrepassa la soglia ed entra nella casa del discorso e del lavoro con l’intenzione di restituire la luce, di ricostruire il tempio, affronta in primo luogo il combattimento, la lotta degli opposti, tra la luce e l’oscurità, tra l’esterno e l’interno. Il debito ora è di unificare gli opposti nella bellezza mediatrice. La sua coscienza deve alzarsi fino a realizzare la congiunzione degli opposti. Egli deve rappresentare il fedele della bilancia per annullare l’opposizione come realtà, perché così sperimenterà la realtà dell’Essere. Perciò deve comunicare, andare dentro fino a raggiungere l’unità. Questo è il significato di tempio in ebraico, kol = tutto. Quando si menziona la parola comunione, la mente di ognuno l’associa a qualcosa. Abbiamo tre riferimenti o livelli: a. possiamo alludere alla riunione fraterna tra i vari studenti che si riuniscono per un fine comune. Per esempio, se ci riuniamo attorno alla Shej’nah per erigere insieme il tempio. b. possiamo alludere anche al vincolo cosciente che possiamo creare tra il nostro essere esterno ed il nostro essere interno. c. possiamo anche fare riferimento al livello che deriva dall’aspetto esteriore, una volta stabilito il nesso col nostro essere interno, sentire come questo ci porta fino all’esperienza più sublime che un essere umano possa realizzare, come sperimentare l’essere o scorgere l’unità con Dio. Il Salmo 133 ci ricorda un livello di comunione col testo seguente: “Oh come è buono e come è dolce abitare insieme a tutti i fratelli! Come un unguento fine della testa che scende per la barba”. Tra alcuni ebrei, la testa è il deposito della saggezza di Dio, ed i capelli penzoloni della testa e la barba sono la saggezza che adornano l’uomo. L’Ain Soph la Saggezza infinitaCercheremo di parlare di un tema in rapporto con la creazione, avvisando in anticipo che chi non vive una realtà quotidiana con noi, avrà in questo caso dei problemi rispetto al linguaggio abituale. Abbiamo oggi alcune spiegazioni della teoria fisica moderna che possono servirci da esempio per poter verbalizzare temi che vanno oltre il nostro ambiente. Il fisico Hawking è uno che può aiutarci a comprendere alcuni aspetti che si trovano nella cabala, resa in questa forma velata e pertanto meno comprensibile. Per una persona non molto esperta, alcune idee come la contrazione e dilatazione dell’universo possono presentare una certa difficoltà di comprensione. Alcune di queste teorie furono formulate dal cabalista Louria ed introdotte nella cabala attorno al millecinquecento d.C. Non discuteremo se la creazione si realizza partendo da un Creatore o se questa è indipendente da Lui. Nella cabala non c’è un Dio creativo, ma la creazione sorge da Lui in emanazioni successive; nella religione, tuttavia, si parla di un Dio creativo. Causa prima o prima vibrazione, sono cose che la scienza conosce più della gente comune, ma sulla creazione del cosmo, ci sarà sempre qualcosa di inconoscibile per la mente umana. D’altra parte, se osservando l’universo siamo capaci di contemplare la presenza di una serie di leggi, che troviamo in altri sistemi ma nello stesso tempo vicine come può essere il corpo umano, non solo potremo intuire l’esistenza di un terzo mondo o livello, ma la propria presa di coscienza dell’ordine stabilito, ci fa pensare ad una Legge che tutto dirige. Possiamo chiamare questa legge e quest’ordine in molti modi, così come possiamo usare lo stesso nome per ciò che non conosciamo e che si trova aldilà delle cose conosciute, anche delle menti più eccelse. Pertanto, “Colui” che sta aldilà di questa legge ed ordine, possiamo chiamarlo Cosmo o Dio, benché sia solo un prodotto della concezione della mente umana. Detto ciò, torniamo alla spiegazione cabalistica sulla creazione che nasce da Dio. La esamineremo da un attimo prima delle emanazioni ed ovviamente, fino alla fine della condensazione terrestre. Sia per il giudaismo ortodosso come per la mistica ebraica, esiste un livello inconoscibile dal quale, attraverso successive emanazioni non verbalizzabili, si arriva alla condensazione ostensibile. Sia prima delle emanazioni come nello studio di esse, osserviamo già l’impronta triangolare esposta. La cosa curiosa è che mentre la cabala lo contempla, l’ortodossia ebraica per ragioni storiche – cioè di affermare l’idea di nazione ebraica, questo per far in modo che la sua gente passasse dall’idea di tribù a quella di nazione – eliminò l’idea trinitaria (ancora oggi si dice nelle sinagoghe: “Ascolta Israele, il nostro Dio è Uno”). Anche lo Yetzirah aggiunge la menzione “Dio unico” dando rilevanza a “unico” per lasciare ben intendere che c’è un solo Dio. Il caso vuole che questo Dio unico, proietta di sé stesso una serie successive di emanazioni che possiamo triangolare. Un primo triangolo è posizionato ad un livello denominato “nulla” nella legge mosaica. Per la nostra mente, il nulla non esiste, cioè, il nulla è già qualcosa, eccetto la negazione di sé stesso. Se ricordate i quattro livelli della creazione, è chiaro che ci stiamo riferendo a qualcosa che non possiamo nominare a meno che non si ricorra ai simboli. Che cosa potremmo pensare dell’Atziluth o di una creazione del “nulla” dal nulla? Se ricorriamo alla spiegazione sui buchi neri, potremmo capire che la nostra terra fu in un momento x, parte di un buco nero dove tutto era intriso di una tremenda gravità che l’essere che la schiacciava, non lasciava uscire la luce. Lì esisteva tutto quello che esiste ora, diciamo che è come il seme di un gran rovere. Il seme non è quel grande tronco che dopo vari anni esisterà, né grandi rami, né foglie, né radici. Ma tutto quello che il grande rovere è o sarà, lo fu molto tempo prima, quando era solo un piccolo seme. Allo stesso modo, tutte le cose che esistono esistevano nel buco nero. Se non vogliamo abbandonare le nostre idee religiose, possiamo dire che tutto esisteva nella mente di Dio. Possiamo ricorrere anche ai numeri per spiegare la stessa cosa. Abbiamo un punto zero con numeri positivi alla sua destra e numeri negativi alla sua sinistra: -5 -4 -3 -2 -1 0 +1 +2 +3 +4 +5 Quando il Racconto dice che il mondo era sommerso dalle tenebre, oppure quando ci viene data l’idea di caos, possiamo dire ch’esso si riferisce al livello archetipico o al seme dell’esempio del rovere. È, insomma, un livello nel quale non esiste la forma. Le parole ebraiche “vuoto” e “informe”, sono “bohu” e “tohu”. In questo vuoto non esisteva la forma, nonostante l’Essere. Quando diciamo che l’Essere crea dalla cosa informe, o se preferiamo, quando si investe la gravità del buco nero, inizia una creazione che poi manifesta un ordine, un’eterna armonia, un eterno moto. Sia che lo vediamo dal punto di vista dell’accettazione di un Creatore o dall’esistenza naturale ed indipendente dell’universo, quell’armonia e quell’ordine viene chiamato Saggezza. Quello è quello che si attribuisce al termine “Ain Soph”. In realtà, i cabalisti usano come prima idea, quella che trasmette il termine “AIN”, che possiamo tradurre con “no” o con un -3 nel linguaggio dei numeri. Il seguente passo è “Ain Soph”, che significa “non fine” o infinito, al quale gli è attribuito l’idea di Saggezza. Il terzo passo di questa non creazione è l’ “Ain Soph Aur”, che tradotto vuol dire – fine – luce- (dall’ebraico “or”), o luce infinita che si applica anche alla Saggezza Infinita. In questo vuoto e relazione, i tre componenti della non creazione: -3 -2 -1, confluiscono in quell’attimo che oggi la teoria del big-bang chiama il momento zero della grande esplosione. Partendo da questo momento si manifesta la prima emanazione con l’azione del berechit, che i cabalisti raffigurano con una corona chiamata “Kether”. Il Sepher Yetzirah parla di dieci emanazioni, ma non gli dà nomi. Essi sono il prodotto dei cabalisti. Kether o corona, è l’uno positivo. Ma l’uno per noi non esiste fino a che non trova la sua espressione duale. Kether si simbolizza come l’anziano dei giorni. Normalmente si simbolizza anche con un viso di profilo. Questo ci suggerisce che una parte di questa sephira o emanazione, si trova ancora nel lato oscuro, come se stesse oltrepassando la soglia del buco nero. Una parte è già visibile, mentre l’altra si trova ancora nella non manifestazione. La vibrazione di una longitudine di una determinata onda, quando si incontra con un’altra distinta onda, ma complementare, insieme ne creano una terza, la quale, essendo “figlia” delle prime due, non è uguale ad esse. Potremmo dire la stessa cosa se diciamo che una proiezione di Kether si condensa creando una seconda sephira, il cui nome ebraico tradotto è saggezza. Questa saggezza era prima, è ora e sarà dopo. Vista così, la saggezza è Ain Soph. Tuttavia, anche la seconda sephira porta questo nome, benché l’attributo di saggezza impregni tutto. I cabalisti chiamano la saggezza Chokmah. Fin qui abbiamo descritto implicitamente quello che il Genesi dice col suo linguaggio: “Dio nel principio creò il cielo e la terra (at). Quando la saggezza (Chokmah) si proietta, appare il tre del primo triangolo di manifestazione: l’intelligenza (Binah) che si riferisce al tre positivo. Questa è la prima triade o Triade Suprema del mondo dell’emanazione o Atziluth. La corona come la testa, saggezza come il Padre e intelliganza come la Madre. Partendo dall’autoproiezione di Binah si crea forza (Chesed), chiamata anche clemenza (Geburah), che è il primo giorno della creazione, perché la creazione, benché provenga dalla Prima Trinità, non fuoriesce da lei, bensì da quello che potremmo considerare il quattro positivo. Da Chesed si crea Geburah (rigore), chiamato anche din (giudizio) e da questa Tiphereth (la bellezza). Chesed, Geburah e Tiphereth, formano un secondo triangolo che benché appartenga ad un livello intangibile, possiamo chiamare mondo o livello della creazione. Questi tre sono il 4, il 5 ed il 6 positivi. Tuttavia, corrispondono al primo, secondo e terzo giorno della creazione del Genesi (l’uomo non esiste ancora, benché la Saggezza Infinita lo crea seguendo lo stesso procedimento). In Tiphereth si può scorgere un viso di fronte che rappresenta il figlio, mentre Chesed e Geburah sono chiamati in alcuni testi “lampade che formano il trono reale.” La terza triade è formata da Nezach (vittoria), Hod (gloria) e Yesod (fondamento o fondazione). Benché siamo ad un livello non tangibile, a questa triade possiamo applicargli l’idea di formazione (Yetzirah). I cabalisti dicono che tutte le forze provengono dalla sua natura. Esse sono il 7, l’8 ed il 9 positivi, riferiti ai giorni della creazione, il quarto, quinto ed il sesto. Nel sesto giorno appare il pronome “il”, (in ebraico he, che è legato all’uomo). Tutte le sephirot descritte (famose nei testi come i nove palazzi) normalmente mettono a parte la decima condensazione denominata Malkuth che ha molte caratteristiche: il regno, la terra, il trono, la fidanzata, la regina, l’armonia, la matrona, la sorella, etc. Rappresenta la residenza di Dio, il tempio, la Sua casa, la Sua presenza. Pertanto, la Shej’nah. La sua fine è unirsi al marito. Che Dio e la terra siano uno. È il numero 10, che è lo stesso uno seguito da uno zero. Seguendo la struttura delle lettere-numeri ebraici, l’1, il 10 ed il 100, sono la stessa idea espressa in tre livelli distinti: l’archetipico, quello della formazione ed il cosmico. La numerazione pertanto, come ricorderemo, va dall’1 al 9, quindi dal 10 al 90 ed infine dal 100 al 900 includendo nelle 22 lettere basilari le cinque finali. Una spiegazione semplificativa di questa disposizione potrebbe essere quella che abbiamo raccontato prima quando ci riferivamo al padre. Se parliamo del capo di una famiglia patriarcale, il padre, diciamo che è l’uno. Se ha un figlio e vogliamo riferirci alla parte o presenza del padre nel figlio diciamo dieci. Se ci riferiamo al padre in relazione alla famiglia diciamo 100. Questo ha un perché. Nella mentalità ebraica, la costruzione del linguaggio segue alcune regole che l’obbligano a non modificare l’individuo, cosa che non succede nella nostra mentalità. Lì una cosa è una cosa e non può essere un’altra, pertanto, il linguaggio non può distruggere né modificare la cosa, né può essere più di una cosa. Facciamo un esempio: un re x è un re, non c’è una parte di re, né ci sono due o tre, re. Se qualcosa proviene dal re, per esempio, se egli parla, noi diremmo “parola reale”, così dicendo abbiamo distrutto col linguaggio il re. L’ebraico non permette questa costruzione verbale, egli dice sempre: parola di re. Allo stesso modo non si può avere più di un Dio, né parti di Lui. Questo non toglie che Egli possa manifestarsi in distinti livelli. I numeri sono allora strutturati in modo che possano esprimere la stessa cosa della quale si parla nei distinti livelli di creazione. Dio è l’1 e l’Unico, lo dice chiaramente il Sepher Yetzirah, ma Egli può manifestarsi come 1, come 10, o come 100. Se parliamo della materia e la simbolizziamo col 4, staremo parlando del seme del rovere, cioè, dell’archetipo della materia. O nel linguaggio della fisica, gli elettroni che formeranno più avanti gli atomi, che possiamo simbolizzare col 40, dopo si trasformeranno in molecole che tocchiamo e che possiamo rappresentare con il 400. In questo modo sono costruite la maggioranza delle spiegazioni relative alla creazione. Ma tornando alla nostra lingua e mentalità, perdiamo di vista questo concetto. Per capire alcuni aspetti nascosti della creazione, velati nel linguaggio della cabala, dovremmo ricordare sempre i quattro livelli di cui abbiamo parlato inizialmente. Per approfondire meglio questo tema e svelare un’altra questione, ci riferiremo ad una comune confusione che fanno coloro che si iniziano nella cabala. Intendiamo dire che aleph è la prima lettera, pertanto, deve essere quella che indica il principio. Quindi sentiamo o leggiamo che siccome l’unità non “conta nulla”, si ha bisogno del due, pertanto, la creazione comincia dal due, la lettera bet. Ma dopo ci dicono che tutte le lettere partono della più piccola di tutte che è la yod, il numero 10. Qual è quindi il principio? Se ritorniamo ai quattro livelli, capiremo subito. In un testo appare un’allegoria delle lettere. Queste si presentano davanti a Dio chiedendogli che inizi la creazione da ognuna di esse. Quindi si presentano in ordine inverso, che vuol dire, dall’ultima, la tau, alla prima, l’aleph. Ognuna argomenta le sue ragioni, ma Egli continua a scartarle fino a che arriva il turno della “bet” (o il numero 2), e Dio gli promette che con essa inizierà la creazione. Poiché la creazione comincia con la “bet” (equivalente alla nostra b e v, la prima nel principio della parola e la seconda in mezzo, come la “b” di berechit e la “v” di Geburah rispettivamente. In entrambi i casi la lettera ebraica è la “bet”), il principio del Genesi, cioè, la prima lettera della prima parola del primo versetto del primo capitolo del primo libro della Bibbia, è, precisamente, la “bet” di berechit. Questa lettera appare due volte nel primo versetto, perché si trova anche in “bara” che significa “per” l’azione di. Continuando con l’allegoria delle lettere, Dio si dirige verso l’aleph domandandosi perché non si presenta davanti a Lui con le sue richieste, come le altre, le quali chiedono che la creazione inizi con una di loro. Aleph gli dice che sapeva già che quell’onore sarebbe stato concesso a bet. Quindi Dio gli risponde che benché Egli avrebbe cominciato la creazione con bet, ella, l’aleph, sarà sempre in capo alla creazione. Questo lo possiamo vedere anche nel primo versetto del Genesi dove oltre ad apparire due parole che cominciano con bet, ce ne sono altre due che cominciano con aleph. Il versetto in questione dice così: “Berechit bara Elohim at hashmain vet herez”. Le due aleph sono la “e” di Elohim e la “a” di “at”, particella della quale abbiamo già parlato ampiamente. Perché questa organizzazione di lettere nella spiegazione del primo momento della creazione? La risposta si trova nell’uno, la mente ragionatrice non apprezza niente. È col due, con la dualità o la presenza del paio di opposti che possiamo percepire la realtà relativa alla mente soggettiva. L’aleph è l’uno, la bet il due. Tuttavia, prima della creazione manifesta, ostensibile, c’è una creazione muta. Anche quella è rappresentata dall’aleph, mutamento, e dalla bet, ostensibile. Una similitudine la troviamo nella parola pronunciata e nella parola silenziosa, questa precede quella. Parlando, chiamiamo parola il suono della nostra voce, ma senza l’aria invisibile che ispiriamo prima di parlare e l’adattamento muscolare della bocca, anche la smorfia che precede la voce, è voce e parola, perché senza ciò non esisterebbe l’altra cosa. Tutto quello che suona si produce con l’azione di quello che non suona. Le tre lettere madri dalle quali si formano tutte le cose, sono aleph, mem e shin: aria, acqua e fuoco. In altri linguaggi si aggiunge la terra come quarto elemento, ma nella spiegazione ebraica, la terra si forma partendo dall’acqua. Detto questo riprendiamo il tema dove facevamo menzione dell’usuale confusione di alcuni studenti che vedono a volte il principio rappresentato da una lettera e a volte da un’altra. Se ci riferiamo al principio non manifesto lo rappresenteremo con la lettera aleph, l’1, il quale non ci dà idea di qualcosa, è come dire freddo senza sapere che cos’è il caldo. L’Uno senza l’altro non sono una realtà. La lettera aleph è l’inizio della parola “Atziluth”, livello di emanazione o della non manifestazione. Se ci riferiamo all’inizio del livello che abbiamo denominato “creazione”, la lettera che si simbolizza è la bet, il 2, come beriyah o briah (creazione). Principio o inizio, si simbolizza anche col numero 10 che è lo stesso 1 su un altro livello. Questo è il principio del mondo Yetzirático, e come è ovvio, la lettera simbolica di questo livello denominata “formazione”, è la lettera yod, curiosamente questa lettera è un punto esteso, come una virgola, ed è la più piccola di tutte le lettere. Un’aleph è una linea obliqua da destra verso sinistra con due yod incorporate, una di esse è invertita e forma la base della lettera. Tutte le lettere ebraiche partono da yod, cioè, dal punto esteso abbiamo tutte le lettere ebraiche. Nel quarto livello, nel mondo della realizzazione, l’Assiah, non si prende come inizio, ma come effetto. Nonostante, potremmo osservare che l’idea dell’1 seguito da tre zeri, quattro livelli, può essere rappresentato dalla lettera ayin, una lettera che indica anche mutamento. |